Venti gol per scollinare nel nuovo millennio da centravanti del Vicenza, dov'era approdato dalla natìa Riviera romagnola facendo una tappa intermedia a Montevarchi. Poi, la doppietta delle illusioni in un derby della Madonnina con la maglia giusta (quella rossonera, in un epico 6-0), prima di fare trenta: i miliardi che Beppe Marotta, ai tempi direttore sportivo di un'Atalanta ruggeriana ambiziosetta, convinse patron Ivan a sborsare sull'unghia per assicurarsi il fenomeno del futuro. L'epopea del nuovo bomber in sella alla regina delle provinciali? Lasciamo perdere. Hai voglia a chiamarlo meteora, Gianni Comandini da Cesena. Vabbe' che nell'universo del pallone una delle più cocenti delusioni vestite di nerazzurro, che oggi compie trentaquattro anni da ex del calcio giocato, nonostante le grandi attese che c'erano su di lui non è riuscito a mettere radici stabili manco a pagarlo. E sì che di soldoni ne ha fatti girare parecchi intorno al suo nome, rimanendo in eterno allo stadio larvale di un potenziale campione che avrebbe potuto sfarfallare verso orizzonti di gloria. Senza mai dispiegare veramente le ali.
Un 2000/2001 condito dall'oro nei campionato europei Under 21 in Slovacchia (19 partite e 6 gol in Nazionale giovanile nel suo palmarès), e da quei due capolavori contro la squadra giusta al momento giusto, più addirittura una zampata in Champions League: oplà, la sua valutazione sale di dieci punti. Dai venti miliardi allungati al ds veneto Sergio Gasparin dal munifico mecenate Adriano Galliani, alla cifra record garantita dal suo omologo atalantino. Peccato che, nonostante un curriculum già abbastanza pingue di credenziali - prima della breve comparsata nella corazzata berlusconiana, i ventelli coi bianconeri di Romagna nell'ultimo biennio del secolo scorso suggellato dalla promozione in B, e con gli eredi del Lanerossi -, da quando arrivò sotto le Mura il bravo e bello Comandini non ne azzeccò una nemmeno per scherzo. Una prima stagione con il Vava in panca e 4 reti all'attivo in 30 timbrate di cartellino, poi le briciole. Le presenze, causa reiterati acciacchi e una certa predilezione per una condotta quotidiana non propriamente da cappuccino (eufemismo), al giro successivo sono già rarefatte: una decina appena, tre palloni messi nella porta altrui. La squadra più amata all'ombra delle Orobie cede, snervata da un attacco esangue completato da mister-segna mai Rossini (3) e dalla sciagura Vugrinec che rimane addirttura all'asciutto: i dieci sigilli di Doni non bastano, alla fine il destino è una cocente retrocessione - con Finardi a rilevare Vavassori - sancìta dal doppio spareggio con la Reggina.
Corsa finita dopo la caduta? Più o meno. Spiccioli di una carriera più fulminea di una sbattuta di corrente, prima della folgorazione sulla via di casa e dei prediletti divertimenti serali. Sei mesi in prestito al Genoa nel 2004, e il fondo del sacco si gonfia una volta sola. Quindi il ritorno alla base, tre epifanìe (di cui una in Coppa Italia, con l'ultimo acuto in nerazzurro sotto Mandorlini) e la nuova cessione in cadetterìa, alla Ternana. 7 match e si arriva a quota 54 nelle marcature nei campionati professionistici. Il presente, appese le scarpette al chiodo nel fatidico 2006, è targato Cesena. Dove l'ex spalla di Ventola tra gli Azzurrini ha aperto un ristorante e gioca (o giocava...) nella Polisportiva Forza Vigne, squadra amatoriale affiliata al Centro Sportivo Italiano e fondata nel 1983 dal padre Paolo. Si dice che in estate serva succulenti cocktail in un chiosco sulla spiagga di Cesenatico, ma a quanto pare il suo futuro assomiglia alla prediletta vita mondana degli anni da calciatore: è da un po' che il nostro, al Teatro Verdi della città che lo ha visto nascere e sbocciare al calcio, si cimenta con piatti, dischi e consolle. D'ora in poi, chiamatelo Dj Gianni. Augurissimi.
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