Il presidente dell'Atalanta Antonio Percassi ha concesso un'intervista al quotidiano "La Repubblica", nella quale ha analizzato il grande momento della formazione nerazzurra e svelato i segreti della sua costruzione. "Alla fine, quel che conta, quel che rimane, non sono i soldi ma le esperienze di vita fatte, le emozioni provate. La più incredibile perché mai provata prima, la vittoria sull’Everton in Europa League, quando pensavamo di perdere 3-0 e invece alla fine del primo tempo il 3-0 era per noi".
Antonio Percassi, l’impressione è che lei giudichi più difficile fare il presidente dell’Atalanta che l’imprenditore.
"Senza dubbio. Se conosci bene la tua materia e il mercato, raggiungi risultati. Nel calcio puoi solo sperare di sbagliare il meno possibile. Dalla sera alla mattina vieni smentito. Una società di calcio non è mai solo tua. Di notte, prima di andare a dormire, mi capita di leggere i giornali dell’indomani: dell’Atalanta ne sanno più di me se quel giorno non ho avuto il tempo di sentire i miei collaboratori".
Se è così complicato, perché cimentarsi?
"Perché è bello fare felice la gente. Se le cose vanno bene, come per noi nell’ultimo anno, gli appassionati ti sono riconoscenti. Ti fermano per strada per dirti “grazie” con le lacrime agli occhi. E questo non ha prezzo".
A Bergamo si usa dire che è bene finire sui giornali due volte, quando si nasce e quando si muore. Lei è presente ogni giorno.
"Non mi piace ma lo devo accettare, fa parte del gioco. I protagonisti sono quelli che vanno in campo. Tu devi solo sperare di soffrire il meno possibile per il risultato. Se vinciamo è una gioia immensa ma passa presto. Perché dal lunedì si comincia a pensare alla partita successiva. Se invece perdiamo, dolore fisico e notte insonne. In famiglia siamo tutti coinvolti nell’Atalanta, ci capiamo senza parlare, cerchiamo di evitare il tema".
Lei in tribuna è sempre solo.
"Sì, non voglio nessuno a fianco. La poltrona vicina deve rimanere vuota. Perché fuori cerco di controllarmi, ma dentro sono un vulcano".
Il momento più brutto è stato lo scandalo scommesse che travolse Cristiano Doni?
"Credo sia stato coinvolto in un sistema che allora era un’abitudine. Riguardava tutti, non solo l’Atalanta. Nessuno immaginava che il fenomeno fosse così esteso. Ma la mia sensazione è che lo scandalo sia servito al calcio per fare piazza pulita. Voglio vedere il lato positivo".
Dunque secondo lei ora il calcio è più pulito?
"Nettamente, almeno sotto questi aspetti. C’è una mentalità diversa, ogni squadra entra in campo con la voglia di vincere, sempre".
Lei ha ripreso l’Atalanta nel 2010. Ma era stato presidente già tra il 1990, a 37 anni, e il 1994. Non andò benissimo. Che differenze tra allora e oggi?
"L’esperienza. Allora ero solo, non avevo con me la famiglia, i figli erano piccoli. Ora dei miei sei figli uno ha 4 anni e mezzo, ma gli altri cinque sono maggiorenni, sono in azienda e sono capaci. Io faccio da supervisor, permettendo loro anche di sbagliare perché è importante per crescere. Se domattina dovessi scegliere di andare ai Caraibi mi sentirei tranquillo. Luca, 37 anni, è l’amministratore delegato dell’Atalanta, ci ha giocato nelle giovanili poi ha passato 3 anni al Chelsea. Conosce la materia. Un conto è dipendere dai collaboratori, un altro è avere la famiglia sul pezzo, ci diciamo le cose come stanno e si interviene in tempo reale se ci sono problemi".
Questa sua fiducia nei giovani si è riflessa anche nel calcio, quando il suo allenatore, Gasperini, ha deciso di farne largo uso sono arrivati i risultati.
"È sempre stata una caratteristica della società, si era un po’ persa. Nel settore giovanile abbiamo investito e investiremo molto. In generale credo nei giovani, l’età media dei miei dipendenti è di 28 anni e l’85 per cento sono donne".
Lei è stato anche calciatore dell’Atalanta tra il 1970 e il 1977. Un patrimonio di conoscenza che l’aiuta oggi a comprendere lo spogliatoio?
"Mi serve nei momenti delicati. Gasperini, lo staff, i calciatori capiscono che sai di calcio, non come molte persone che fanno i fenomeni e ne parlano senza avere le fondamenta. Così il confronto viene naturale. Anche usando poche parole, come è tipico di noi bergamaschi".
Come va con i tifosi? In passato hanno provocato seri problemi di ordine pubblico.
"Da due anni però non succede. Abbiamo affrontato il problema in modo semplice, col dialogo. Abbiamo con loro un filo diretto continuo e abbiamo cercato di far passare il messaggio che se vogliono bene alla squadra non la possono tradire provocando incidenti. Invece di creare muri, abbiamo gettato ponti, abbattendo le barriere allo stadio. I risultati ci danno ragione. Gli ultrà dell’Atalanta sono dei matti in senso buono, bravi ragazzi, gran lavoratori, vanno in trasferta, anche all’estero, e la mattina dopo sono nei cantieri a lavorare. Non abbiamo mai regalato loro nemmeno un biglietto perché sarebbe offensivo. Potrebbero pensare che cerchiamo di comprarli".
La storia dell’Atalanta è una storia di dinastie. Prima i Bortolotti ora i Percassi. C’è un motivo?
"Penso sia un bene perché si tratta di famiglie che hanno amato e amano l’Atalanta. Il calcio sta crescendo in modo esponenziale anche in altri continenti, Asia, America, Africa. Arrivano grandi imprenditori disposti a investire cifre un tempo inimmaginabili, ed è positivo. Però preferisco pensare all’Atalanta sempre in mani bergamasche".
Non si sente un vaso di coccio tra vasi di ferro?
«Piuttosto un piccolo vaso di ferro tra grandi vasi di ferro".
Si sostiene che quando le cose vanno bene nel calcio sia così anche nell’economia e viceversa. Bergamo e l’Atalanta sembrano all’interno di una spirale virtuosa. È più l’Atalanta che aiuta Bergamo o viceversa?
"Bergamo ha aziende pazzesche e internazionali. Ma l’Atalanta è l’Atalanta. Mi è capitato di essere a Dubai o a Shanghai e di vedere la partita in tv dove i telecronisti, per collocarla, dicono sempre “Atalanta di Bergamo”. L’altra sera, a cena col sindaco Giorgio Gori, gli ho scherzosamente detto che gli manderò fattura".
Se le dico Leicester…
"Io tocco ferro e rispondo che l’obiettivo è la salvezza. Mi impedisco di sognare e se anche vado oltre per un secondo, subito torno indietro".
Si considera una persona fortunata?
"La fortuna serve. Forse non inciderà per il 50 per cento come diceva Machiavelli. Facciamo 30. E 70 di bravura".
La sua quota di fortuna a cosa è dovuta?
"All’incontro con Luciano Benetton. Avevo 24 anni, facevo il calciatore. Finito l’allenamento non avevo altro da fare e diventavo matto. Al sabato quando eravamo in ritiro in trasferta, invece di andare al cinema con i compagni chiedevo il permesso di fare un giro in centro per vedere i negozi, capire quali andavano per la maggiore. Quelli Benetton erano sempre pieni. Così presi il coraggio e telefonai, mi rispose Luisa Leone, la segretaria. La feci ridere dicendo: sono un giocatore dell’Atalanta che vuole smettere, avrei bisogno di parlare anche solo cinque minuti col signor Luciano. Mi richiamò per fissare l’appuntamento, presi l’auto e corsi a Treviso. Smisi davvero col pallone, scelta che anche allora sembrò stravagante".
Suo padre non disse nulla?
"Mio padre era già scomparso quando avevo 20 anni. Morì di venerdì, aveva fatto il minatore e si era preso la silicosi. Il sabato mi chiamò l’Atalanta per chiedermi se me la sentissi di giocare perché si era fatto male un difensore. Risposi di sì e spostammo il funerale. Era un derby col Brescia, perdemmo 1-0".
Ha un progetto ancora realizzare?
"Tanti. Anzitutto un centro commerciale a Milano che farà storia. Durerà a lungo".
E allora i Caraibi?
"I miei Caraibi sono Bergamo. E la passione per l’Atalanta. Quella non dura a lungo: quella è eterna".
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