Un bergamasco innamorato del pallone, a cui - ampiamente contraccambiato - dava del tu, nerazzurro a vita se mai ce n'è uno. Dentro e fuori, a caratteri indelebili. Anzi, a dire il vero doppi. L'Atalanta come primo amore e rampa di lancio verso le luci della ribalta, l'Inter herreriana dei trionfi irripetibili nel destino. Angelo Domenghini, sublime ala destra di un calcio ormai irreparabilmente scomparso, tocca oggi quota settanta. Rotazioni terrestri spese in buona parte in un mondo che non l'ha certo ricoperto di gloria e onori, lui che può a buon diritto vantarsi di aver mietuto successi praticamente ovunque abbia messo piede. Tralasciando quelli condivisi con i supercampioni di papà Angelo Moratti e con il Mago di Baires, vanno messi in conto la Coppa Italia vinta con l'Atalanta nel 1963 e lo scudetto con il Cagliari di Scopigno & Giggirriva del '70. Gli unici trofei in bacheca di due provinciali di lusso, che per giustificare di averne una hanno dovuto aspettare il contributo determinante della guizzante punta dal tiro secco e preciso svezzata nell'oratorio di Lallio.
Nato nel piccolo paese suburbano il 25 agosto 1941, sestogenito di sei femmine e tre maschi, crebbe nell'appartamento di due camere sopra l'osteria con mini-bocciodromo gestita dal padre. Infanzia grama, da cui avrebbe trovato riscatto proprio grazie a quella sfera di cuoio che si trovava così bene tra i suoi piedi da ragazzino gracile di campagna. Giochicchiava all'oratorio, poi quel torneo a sette a Verdello e don Antonio, il parroco-patron che lo consegnò al dottor Brolis, allenatore della squadra locale e futuro responsabile del settore giovanile atalantino, per ventitremila lire. Cifra che nel 1960, quando passò alla prima squadra cittadina, si alzò a duecentomila. Con Domingo, come sarebbe divenuto noto in tutto l'ambiente da lì a non molto, che dopo aver sfacchinato come apprendista part time alla Magrini arrivò al massimo al milione d'ingaggio. All'anno. Il battesimo del fuoco, auspice il suo primo mentore ad alti livelli Ferruccio Valcareggi, a Udine il 4 giugno 1961 (ko per 2-1). Poi quella coccarda tricolore, cucita sulle maglie a San Siro il 2 giugno 1963 con la sua sontuosa tripletta al Toro (fu anche capocannoniere di coppa, 5 in totale): la gara della consacrazione, quella che l'anno dopo indusse lo squadrone metropolitano a farlo suo per completare un organico già micidiale. E vincere tutto il possibile.
Dalla Dea di Giulio Tabanelli, Carlo Alberto Quario e Carletto Ceresoli - e, in campo, Veneri, Gardoni, Colombo, Christensen, Nova, Da Costa, Mereghetti, Magistrelli, Nielsen... - all'Inter di Helenio Herrera, Mazzola, Facchetti e Suarez il passo non fu breve, ma l'ex scricciolo di Lallio non ne risentì. Tutto il contrario. Oltre allo stipendio (Moratti scrisse 15 milioni sul primo assegno), crebbe anche lui, come uomo e calciatore provetto. Guadagnandosi la sua fetta di meriti nella torta delle meraviglie: due scudetti, due coppe intercontinentali, una Coppa dei Campioni. E non avrebbe arrestato la sua folle rincorsa all'amatissimo attrezzo di cuoio nemmeno dopo il titolo che rese felice un'isola intera, nemmeno dopo il secondo posto mundial a Mexico 1970, ciliegina su una carriera in Azzurro condita da 33 match e 7 reti. Il canto del cigno? Ai margini dell'impero, come si conveniva a un lupo solitario come Angelo ama definirsi, tutto assorto nell'attuale ruolo di osservatore per conto di Massimo Moratti, figlio ed erede del suo benefattore. Roma, Verona, Foggia, Trento: solo a 38 primavere, la decisione di smettere, all'attivo 349 presenze e 93 gol in serie A. Per continuare a vivere di calcio, ma sempre lontano dai riflettori, diviso tra la casa nel paese natìo e quella in Sardegna, a Liscia di Vacca. Augurissimi, campione.
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