Thomas Tuchel, ospite al Festival di Trento, parla della sua carriera.

Come si vince una Champions League in quattro mesi? Sa un po' di miracolo.
"Forse anche io non posso spiegare, forse fa parte della spiegazione questo non saperlo. Fin dall'inizio, dal primo giorno, ho avuto la sensazione, quando sono entrato al Chelsea, che fosse quasi naturale arrivare lì. Ho avvertito un sostegno enorme, uno straordinario supporto, in circostanze surreali. Brexit, lockdown... Eravamo in un albergo vuoto, a Londra. Eravamo tutti molto concentrati sul calcio, tutta l'energia era per la squadra. Con fortuna e con una società fantastica siamo riusciti a raggiungere questo risultato straordinario".

Tutto alla perfezione con il Chelsea, non con il Paris Saint Germain.
"Non sottovalutiamo il gioco del calcio, c'è la quota fortuna. C'è in ogni sport, ma non ci sono tantissimi gol nel calcio. Un gol, un'espulsione, una questione di centimetri può cambiare tutto. In Champions i margini delle squadre sono molto limitati. Io posso parlare della mia esperienza: si cerca di vincere tutte le partite, questo è il target per le big".

Ha cambiato un po', privilegiando Kanté e Jorginho, migliorando la difesa.
"Non è necessario cambiare, ma se sono convinto di farlo, lo faccio. Ma deve essere al servizio della squadra, non per l'idea di cambiamento. Sono contento di dirlo chiaramente: la partita la vincono i calciatori, le squadre possono vincere anche senza i coach. È come il direttore d'orchestra, alle volte si può fare senza. Ma con lui, con il feeling fra lui e i musicisti, il concerto diventa straordinario. È quello che sto provando a fare: possono giocare anche senza di me, devo riconoscere questo fatto. A qualunque livello sono gli atleti la chiave, si tratta di raggiungere il livello massimo possibile".

Ci sono allenatori che l'hanno ispirata?
"Lasciatemi dire che il mio primo allenatore è stato mio padre, poi ho avuto uno straordinario coach come Ralf Rangnick che ci ha detto che non è sempre necessario correre sempre dietro alla punta, ma si può giocare anche in maniera differente. È stato rivoluzionato. Poi negli anni tante persone mi hanno aiutato ad accrescere la mia opinione del gioco: sono grato a Jupp Heyncknes, la mia prima partita nella Bundesliga è stata contro di lui, un 2-2. È un idolo, ma mi ha trattato come un amico, come un figlio. È stato straordinariamente cortese, mi ha fatto capire che tipo di gentleman devi essere per raggiungere il vertice. Quando vedevo giocare l'Ajax di van Gaal, l'Arsenal di Wenger, il Milan di Sacchi... Io sentivo qualcosa di diverso, non capivo il dettaglio, ma era bello da vedere. Più tardi ho capito quanta influenza ha la società, l'allenatore, quanta importanza ha il ruolo. Sono stato contento di vedere Guardiola e il Barcellona crescere, forse il livello più alto in quegli anni. Ogni partita mi ha quotidianamente portato a migliorare".

A chi si sente vicino?
"Probabilmente Klopp, ha lavorato a Magonza e Dortmund, come me. Non ci conosciamo personalmente tanto bene, perché io ho lavorato in quei club quando lui non c'era. C'è una forte connessione, ma succede 3-4-5 volte all'anno, prima alla partita. È surreale che ci sia il mio nome vicino ad altri: io sono io, sono un grande tifoso del calcio, sono grato di essere qui. Mi sembra surreale incontrare Sotomayor, Alberto Tomba, è un regalo che ho ricevuto, ne sono lusingato, voglio potermela godere ma non mi sento a mio agio di confrontarmi con straordinari individui".

Al Magonza la chiamavano scienziato dello sport, perché?
"Perché il mio studio dello sport non si è mai concluso. Ho studiato come giocatore, ho cercato di fare il fisioterapista alla fine della mia carriera da giocare, ho cercato di studiare inglese per fare l'insegnante. Non ho concluso nulla da calciatore, ma l'obiettivo era quello. Quando ho finito ho studiato economia, che ho fatto contro ogni mio talento, è un paradosso. Era per accontentare mia madre per farla dormire con tranquillità, per fare qualcosa che forse non fosse il calcio. Non mi piaceva, ma ho finito comunque gli studi. Non è solo positivo, se nel calcio ti chiamano scienziato è da nerd, sono freddi, non capiscono l'aspetto emozionale. Ci basiamo sulle statistiche, al Chelsea ci danno molti dati a cui fare riferimento, non è solo la sensazione o l'esperienza. Il meno è quasi più, in qualche modo. Serve un approccio minimalista, che ha rilevanza, che puoi trasferire al team. Nella mia esperienza è che il comfort, il supporto ai giocatori è importante. Non sovraccaricarli di cose. Io cerco di non disturbare i musicisti e la musica, quando hai troppa scelta, o troppa tecnica e tattica, non voglio disturbare. Il calcio è facile".

Alle volte per arrivare alla semplicità si passa in altri modi.
"Tutte quante entrano nel mio lavoro, c'è un ruolo importante, abbiamo assorbito informazioni che fanno parte della mia persona. Voglio crescere così nel mio modo di essere: voglio assorbire, imparare, mettersi in discussione. Il passaggio da fare è cercare informazioni, avere influenze, ma poi snellirle. Non è chiudere la porta e dire non lo sappiamo. Anzi. Quelle che si trasferiscono alla squadra devono essere chiare. Non è una questione di una mia conoscenza, io posso anche convincere le persone, ma bisogna essere diretti, semplici. Sapendo come funziona il nostro cervello questo ci aiuta a insegnare meglio. Il giocatore non è che deve sapere perché devono imparare ad allenarsi con una diagonale".

Mourinho e Sacchi non sono stati due grandi giocatori. È più facile?
"Mi sarebbe piaciuto essere un calciatore bravissimo. Non avrei mai pensato di fare l'allenatore, l'idea non mi aveva sfiorato. Quando giocavo nel giardino di casa tenevo per il Borussia Moenchengladbach. Avevo una porta e giocavo come se fossi in quel Borussia, per me era il mio sogno. Quando poi potevo guardare le partite europee ho visto dei giocatori interessanti dai nomi più strani per cui mi innamoravo. Mi sarebbe piaciuto essere qualunque giocatore del Barcellona. Ero un difensore, quindi... Magari Lothar Matthaus. Mi piacerebbe poter dire di avere anche quella esperienza, da top level, ma posso parlare solo a nome personale, non ho avuto altra scelta di imparare la professione dell'allenatore dai primi passi, non ho potuto basarmi sulla mia carriera da giocare. È stato importante imparare da allenatore nei primi passi, le giovanili, under14... Fossi stato un calciatore straordinario non avrei voluto allenare le giovanili, forse non mi ha dato un vantaggio per diventare un grande allenatore, quando mi sono infortunato da calciatore dell'Ulm mi sono arrabbiato, con la promozione mi sono sentito tradito perché non ho potuto farne parte. Da lì ho avuto molti feedback, mi sono divertito, mi sono riconnesso al mondo del calcio. Sono grato di avere avuto quest'opportunità, la mia vita passata forse non mi ha dato un margine competitivo".

A cosa si ispira nei suoi discorsi prima della partita?
"No, l'approccio con la squadra è molto naturale. Sono esigente, questo sì, ma ho cambiato anche il modo di parlare con le squadre. Anno dopo anno, stagione dopo stagione, ho cambiato. Ho visto gli effetti dell'essere troppo duro, troppo pessimista o troppo ottimista. Prima del mio primo allenamento nell'Academy ero andato da alcuni genitori a dire come aiutare i calciatori. È stato un errore, ma ho imparato e sono cresciuto. Nel mio essere esigente credo di essere diretto e onesto, una squadra e un singolo giocatore devono accettare il fatto che il loro nome venga citato in un certo modo. Dobbiamo creare un'atmosfera, magari criticare e renderla chiara. Se si dice a un quindicenne che non può rimanere nel club, piange. Perché pensa che il suo sogno si spezza. Forse è quasi più semplice dirlo a un professionista, preferisco dei messaggi positivi rispetto a quelli duri. Però non si scappa, è ineludibile. Bisogna dire certe cose, poi diventa tutto più semplice. Tu devi essere affidabile, le aspettative devono essere esplicitate. Mi piace abbracciare i giocatori, con le persone in genere. Con i sudamericani è ancora più facile, mi piace sorridere. Amichevoli senza essere amici".

Sono due categorie diverse i giocatori di PSG e del Chelsea?
"Sono tutti diversi. Quindi cambiare allenatore è un qualcosa di cruciale. Il nostro approccio è diverso, l'esercizio è differente. C'è bisogno di cose diverse in un certo momento, forse più rigidi e più distanti, alle volte, oppure lasciargli briglia sciolta. Varia da giocatore a giocatore e da gruppo a gruppo. Ci si riflette, sempre. Poi c'è un approccio individuale, c'è meno parlare di quanto si pensa. A questi grossi nomi non bastano le parole. O sentono una connessione oppure no, magari la qualità delle istruzioni. Se la cosa ha senso, se quello che l'allenatore si aspetta ha senso. Quello che mi chiede per Neymar, per esempio, sta meglio nella parte sinistra. Perché dovrei incominciare e avviare questa discussione? Dovrei trovare la soluzione migliore nella parte sinistra del campo, creando una situazione per trovarlo e dargli delle opzioni. È Neymar l'artista, sarà lui a scegliere. Una volta che questo giocatore sente che è un qualcosa al suo servizio, allora il ruolo si fa più preciso. Poi si possono criticare anche i campioni, le star, perché i giocatori sanno di assumersi le proprie responsabilità. È un piacere giocare con queste star, diventa facile essere l'allenatore di Lukaku".

Mourinho diceva a Costinha che era bravo, a Maniche che era una merda per farli rendere allo stesso modo
"È una questione di feedback. Alle volte si dice solo sì o no, bisogna essere duri. Altre volte coinvolgi la squadra, altre deve sentire la critica davanti alla squadra. Nessuno nasconde le cose, la verità va detta. Io posso capire che cosa intende Mourinho, le cose sono così: io credo sempre di più che i giocatori siano consapevoli del loro ruolo, del fatto che non sono in uno sport individuale. Sono aperti alle idee, alle critiche, al supporto. Uno dei compiti principali è prendersi cura di questo. Le piccole frizioni possono accadere ogni giorno, anche se qui un po' di più: ci sono 22 giocatori che vogliono essere visti, che hanno richieste. È importante non perderli".

È facile allenare Lukaku, ma è altrettanto facile farlo con Neymar o Mbappé?
"No, non è semplice. Ma ascoltami, ho avuto momenti difficili, anche lasciando andare giocatori che avevano giocato in quella squadra. È accaduto con il Magonza, in inverno, avevamo incominciato a lavorare lì da poco. La sera io facevo fatica ad addormentarmi perché dovevo mandare via dei calciatori. È stata la prima volta che il calcio non mi faceva dormire, mi sono sentito male. Non era gioia allenare all'epoca, questo è capitato al Magonza ma anche quando si studia da allenatori. Non è giusto dire che la colpa è dei calciatori, perché sono delle star. Bisogna sentirsi forti, ma anche la fiducia intorno a te. Ci sono molte sfaccettature, puoi anche essere con le giovanili, se non ti senti abbastanza bravo, anche solo per i genitori che protestano e vorresti parlare con loro, la squadra se ne accorge, la spirale è verso il basso. È una cosa che può diventare pesante. Sono contento e grato di essere arrivato qui. Tutti pensano, ora al Chelsea, al mercoledì e al sabato. Tutto è al servizio del gioco, non ho mai avuto prima. La comunicazione, i livelli, sono così brevi e affidabili che è come essere nei miei giorni migliori al Magonza o nelle giovanili, anche se sono al top d'Europa. Mi sento al sicuro e posso fare le cose meglio, diventi più creativo, puoi meglio trasportare la sensazione alla squadra e ai calciatori. C'è però un substrato di fiducia e di atmosfera che si è creato in questo tipo di ambiente. Com'è stato possibile in pochi mesi? Per questo. Non è giusto attribuire tutte queste difficoltà ai rapporti fra allenatori e calciatori. È più complesso nella maggior parte dei casi".

Qual è l'ultimo aggiornamento della carriera?
"Dalle sconfitte. Abbiamo perso due volte contro Manchester City e Juventus, questo ti tiene sveglio. Ti fa riflettere su te stesso, anche più dei momenti buoni. Così impari sta a me riavviare l'intero processo, rimettere in discussione i livelli di comunicazione, la tattica, le modalità di allenamento, la preparazione fisica, tutto il resto. Si mette in discussione la partita in profondità. Si vede anche come i giocatori reagiscono allo stress. Non è così semplice, ma c'è un aspetto positivo: in un ambiente sicuro, dove sei supportato, senti l'energia necessaria per superare il momento".

Cosa ha pensato della strategia di Allegri in quella partita?
"Alle volte ci si aspetta una cosa e non è sempre così, le aspettative sono una questione delicata. Pensare di potere dire ai calciatori che già sai quel che accadrà non è vero. Ma mi potevo aspettare che succedesse così, che dominassimo. Prima della partita forse ero mentalmente stanco, l'approccio difensivo va bene, ma mi è sembrata una partita contro l'Atletico Madrid. Avevamo vinto 1-0 ma eravamo stati molto offensivi, ma poi la partita la giudichi dal risultato e stavolta è una vittoria per la Juventus. Magari ti fanno i complimenti per la tattica, per l'approccio, ma abbiamo fatto tre errori fondamentali. Abbiamo fatto sì che la Juventus credesse così in se stessa: ma non è che non si sono meritati la vittoria, solo che con l'Atletico non avevamo fatto sbagli. Lì siamo stati pazienti. Ovviamente accettiamo la qualità, la storia e la tattica dell'allenatore. Rispettiamo, non possiamo dire arriviamo lì e vinciamo".

Jorginho è da Pallone d'Oro?
"Per me è uno di quelli che merita di vincerlo, è un giocatore intelligentissimo, è un piacere essere il suo allenatore, ha una grande visione del calcio, del gioco, questo mi piace. Ieri è arrivata la lista dei 30 candidati, ne sento parlare ufficialmente ora, per me non è importante questa lista. Per me i premi individuali, nel calcio, non hanno grande significato. Ovviamente i calciatori vorrebbero vincerlo, i giornalisti anche dire chi è il migliore. Ci sono punte, difensori, portieri, è impossibile fare un confronto reale, giudicare chi sia davvero, oggettivamente. Chi dovrebbe dirlo? Senza conoscere i 30, ci saranno senz'altro calciatori straordinari e tutti lo meriterebbero. Mi piacerebbe che un mio giocatore lo vincesse, certo, perché saprei quale sarebbe l'effetto. Poi è una brava persona, un ottimo giocatore. Ma in generale non è la cosa più importante del calcio".

L'Italia è un paese bellissimo, lei vorrebbe venire qui ad allenare?
"Siamo appena tornati da Torino e sono stato a cena con il caffè, il dopo caffè, perdi e devi tornare a casa dopo questo trattamento. Già provato (ride, ndr). Ora non posso chiedere di più, sono al Chelsea, ma il calcio, fino a quando ero bambino, mi ricordo sempre le grandi squadre italiane, quelle che giocavano nell'Inter, tanti italiani vivono in Germania, noi passiamo le vacanze spesso in Italia. C'è una connessione fra me e l'Italia. I logo, le magliette, è una nazione da calcio, in cui è importantissimo, è bellissimo lavorare per la qualità, siete così tattici. Sarebbe un piacere puro per me venire a lavorarci, sentire l'atmosfera che si sente per lo sport, creare un festival come questo. È straordinario e lo sento bene".

Perché ha portato via Lukaku all'Inter?
"Mi dispiace per i tifosi dell'Inter, però come tutti cerchiamo di migliorare la nostra formazione. Ci serviva un profilo con una punta molto fisica, un punto di riferimento nella fase offensiva, un giocatore di personalità che possa sollevare la pressione dalle spalle dei più giovani che magari stanno più indietro. E ci desse la chance di giocare un calcio più rapido e non ci sono molti giocatori così. Quando abbiamo la chance di riportare Lukaku, per noi è stato un momento importante. Lui aveva detto che stava bene dov'era, ha lavorato straordinariamente con Conte e l'Inter. Ma poi tornare e concludere la carriera in Inghilterra, dove ha giocato da giovane, è stato importante. Sapevamo fosse una persona straordinaria, dovevamo proteggere l'atmosfera nello spogliatoio".

La laurea in tattica si prende in Italia?
"È un approccio interessante, mi piacere l'esperienza di allenare all'estero, anche fuori dalla Germania. Era un passo al buio. Ogni paese è differente, questo mi ha ampliato il punto di vista, i miei orizzonti. Penso sia stato importante, andare all'estero mi ha aiutato in questo senso. Ho avuto l'opportunità di lavorare con assistenti italiani, ho calciatori italiani. A tutti interessa molto la tattica, il dettaglio, è una bella influenza questa. Noi abbiamo giocato con l'Atalanta, con il PSG, Gasperini è un amico dell'allenatore dei portieri del PSG, Gianluca Spinelli. Quando abbiamo analizzato la squadra ce ne siamo innamorati. Sono bizzarri e folli in questo momento. Andavamo avanti e indietro, fast forward e rewind. Giocavano con cose che pensavano che non potessero fare, segnavano un sacco. Mi domandavo se fosse una squadra italiana davvero. Queste cose mi fanno alzare presto la mattina per ricominciare a lavorare. Voi siete al top da questo punto di vista, lo siete sempre stati".

Meglio la qualità oppure i risultati?
"È un pareggio alla fine, uno direbbe la qualità ma poi senza risultati non ti segue nessuno. Abbiamo giocato moltissimi tornei nell'Academy a Stoccarda, ma se non arrivavi in semifinale - almeno - tutti ti guardavano male. Magari giocavi contro giovanili al massimo nei loro paesi. Per questo capisco che le cose devono andare di pari passo. Lo stile deve portarti a vincere. Non devi nasconderti dietro la qualità. Se sei l'allenatore devi trovare soluzioni per giocare bene, ma anche per vincere. Io sono competitivo, ma non mi vergogno di dire che le due cose vanno di pari passo. Non va sempre bene se vinci, perché alle volte è pura fortuna. Sono convinto che in ultima analisi bisogna avere la chance di vincere".

Che ispirazione può trarre dall'Italia di Mancini?
"È facile dirlo, mi è piaciuto tutto. All'europeo ho capito sin da subito che sarebbero stati tra i favoriti. Per la squadra, la panchina, l'atmosfera, lo spogliatoio. Ho visto una squadra di altissima qualità, tatticamente ben messa. Non è così ovvio. Non si possono fare confronti, ma questa è stata una squadra straordinaria. Mi è piaciuto tutto. Mentalmente in questi casi la guardo più da tifoso che da allenatore. La televisione è sempre accesa, ma dopo un po' la spegni. Devo dire che la Nazionale italiana mi ha chiamato, è stata una vittoria meritatissima, con questo sforzo di squadra. Mancini ha costruito, lungo tantissime partite, una squadra straordinaria".

Si sta parlando di Superlega e Mondiale biennale...
"Finora mi sono divertito così tanto, ma ora non è giusto entrare nella politica dello sport. Crediateci o meno, ma sono argomenti che non mi prendono molto. Perché mi distraggono, prendono il mio processo giornaliero e io voglio fare il meglio giorno dopo giorno, ora devo affrontarle più in profondità. Wenger è a favore ogni due anni, ma ho bisogno che ci parli, così come per la Superlega. Ho bisogno di più informazioni da chi è coinvolto. Attualmente non posso dedicare energie mentali nemmeno a fare commenti. Non mi sono fatto ancora un punto di vista. Per il momento è una cosa più politica per la quale non ho un interesse immediato. Tutti credo debbano pensare attentamente, noi come allenatori non abbiamo detto la nostra. Forse diremo la nostra, però non è accaduto".

Chi vede bene per la Champions?
"Non ne ho idea, al momento. Siamo fermi adesso, siamo ancora nella fase a gironi. Se vuoi scalare la montagna, devi comunque partire, altrimenti alla cima non ci arrivi mai. È bellissimo arrivare fin lassù, ma prima devi fare primi passi. Bisogna mettersi attrezzatura, prepararsi, passo dopo passo. Se io dicessi che vinceremo, credo non servirebbe a molto. La prossima partita, con il Malmo, è la cosa più importante. Ci proviamo sempre, ogni settimana, a vincere. Ci nascondiamo, siamo timidi, non vogliamo far vedere le nostre vere ambizioni. Non è questo. Dobbiamo tenere i piedi per terra, avere le giuste aspettative, essere determinati. Poi se si comincia a salire si può arrivare alla cima, ma bisogna dare importanza al percorso. Ma intanto lotteremo, per ogni titolo, finché c'è possibilità".

Chi la vince?
"No, non lo so. Forse anche un'italiana".

Le auto italiane?
"Io non le guido, perché sono molto timido, ma le ammiro molto. L'Italia è un paese molto sportivo, seguo la Formula 1, ho incominciato a informarmi su come lavorino per tentare di migliorare centimetro dopo centimetro, è straordinario lo sforzo, quanta energia le squadre mettano. Avete tutto il mio rispetto".

Sezione: Interviste / Data: Dom 10 ottobre 2021 alle 08:30 / Fonte: Andrea Losapio - TMW
Autore: Redazione TuttoAtalanta.com / Twitter: @tuttoatalanta
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