Verso il soffio delle candeline a fari spenti, compassato come quando il suo attrezzo da lavoro preferito erano le scarpe bullonate. 45 anni, di cui 28 trascorsi nel mondo della sfera magica, prima assestandole pedate e adesso coltivando talenti da proporre ai quattro angoli della terra. A conti fatti, l'unica qualità ad avvicinarlo a un campione era nel suo luogo di nascita: Lanùs, popoloso centro della provincia di Buenos Aires che è stata anche la culla di un certo Diego Armando Maradona. Ma per il resto Leo Rodriguez, centrocampista offensivo di piede sensibilissimo quantunque più piantato di un paracarro, alla prova del nove - e ne ha avute parecchie - s'è rivelato qualcosa a metà tra l'orpello superfluo e il fenomeno d'importazione di difficile collocazione tattica. La classica stella ad uso interno, poco incline ad abituarsi al clima da maratone podistiche che già negli anni Novanta del secolo scorso s'era innervato al calcio del Vecchio Continente. Dove l'attuale procuratore di German Denis, a questo giro tra le star designate dell'Atalanta, giocò dal 1991 al 1995 tra Tolone, Bergamo e Dortmund, senza lasciare scie particolarmente luminose del proprio passaggio. Anche perché di chilometri in campo, diciamocelo, ne macinava pochini, l'aitante capellone passato per Velez Sarsfield e Argentinos Juniors prima di tentare la scalata alla grandeur personale attraverso una carriera europea cominciata con il boom: 12 gol con i francesi, quando la possibilità di vestire la maglia dell'Olympique Marsiglia era ormai sfumata, e gli occhi di tutti addosso.
Approdato sotto le Mura - con il primo Percassi presidente - alla corte di Marcello Lippi, al nostro per risultare simpatico ai molti tifosi nerazzurri che ancora oggi lo ricordano rimproverandogli bonariamente la compassatezza col pallone bastò quell'unico gol in 19 match nell'1-1 casalingo contro il Brescia. Viva il campanile, verrebbe da dire. E non a caso il buon Leo, trequartista alla Riquelme senza possederne la genialità ma spesso schiacciato sulla corsia per far posto alla coppia d'attacco Ganz-Rambaudi, periodicamente suonava rintocchi di trame sontuose senza abbandonare la staticità di base. A corrente alternata come le luci del Presepe, benché prezioso assist-man al contagiri, le campane a morto sulla sua avventura atalantina cominciò a sentirle con l'innovatore Francesco Guidolin, succeduto al viareggino sulla tolda di comando e ben presto costretto a mollare le redini al duo Cesare Prandelli-Andrea Valdinoci. L'argentino cresciuto nel Granate (la squadra della sua città), dopo una sola comparsata col Piacenza il 7 novembre del '93, decise di svernare in prestito al Borussia (7 partite appena), dove nonostante il giallo acceso delle maglie non ce la fece proprio ad emergere dalle nebbie perenni di una discontinuità congenita. Tornato alla base, ebbe quanto meno il coraggio di smazzarsi la B (10 cartellini timbrati, 1 sigillo) con il Mondo in panchina, nella nuova era Ruggeri, prima di rientrare in Sudamerica. Dove avrebbe concluso, tra Universidad de Chile, America (Messico), San Lorenzo e Lanùs, una parabola professionale più che dignitosa. Con i fenomeni, labili parentele. Quelli semmai li scopre lui, in giacca e cravatta. Auguroni, e solo il tempo galantuomo dirà se con El Tanque colmerà il suo debito di gratitudine con la Dea...
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