Per i veri tifosi dell’Atalanta Domenico Moro non è solo un nome. L’ex centrocampista nerazzurro, classe 1962, è un volto scolpito nella memoria di chi ha vissuto gli anni più difficili – ma autentici – della Dea. Arrivato a Bergamo all’inizio degli anni ’80, in una squadra che lottava per risalire dagli abissi della Serie C1, è stato protagonista della doppia promozione che ha segnato una svolta nella storia nerazzurra. All’Atalanta è rimasto per tre stagioni (1981–1984) e oggi, da responsabile tecnico metodologico del settore giovanile dell’Almè, continua a vivere il calcio con la stessa passione, trasmettendo ai più giovani i valori di sacrificio, appartenenza e rispetto che hanno guidato la sua carriera.
Domenico, quando sente nominare l’Atalanta, qual è la prima immagine che le viene in mente?
«Sicuramente quella del mio arrivo a Bergamo - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. Avevo diciott’anni ed era tutto nuovo: città, persone, ambiente. Ricordo il viaggio in treno, da Treviso, da solo».
Lei è stato protagonista di una fase difficile ma affascinante: la doppia promozione dalla C1 alla A. Cosa ha significato far parte di quel gruppo?
«Ero giovane e volevo una società blasonata con un settore giovanile importante. Feci diversi provini – Brescia, Milan – ma tutti dicevano che quello dell’Atalanta era il migliore, il più rinomato, dove i giovani venivano valorizzati. Così, anche se la squadra era in Serie C, andai a Bergamo. Fui fortunato: mi aggregarono subito alla prima squadra, senza passare dal settore giovanile».
È ancora così? Il vivaio dell’Atalanta è tra i migliori?
«Secondo me sì. Molte cose sono cambiate – procuratori, ragazzi presi all’estero – ma la progettualità dell’Atalanta nel settore giovanile la rende una delle migliori realtà a livello europeo, non solo italiano. Si è investito tanto anche sugli impianti: la struttura di Zingonia ce la invidiano in molti. È vero, una volta forse i giovani avevano più opportunità di entrare nel giro della prima squadra; oggi un po’ meno, perché si attinge di più all’estero».
Da responsabile tecnico metodologico dell’Almè, cosa manca oggi ai giovani calciatori italiani per fare il salto? Fame, sistema, o coraggio di lanciarli?
«Secondo me manca un po’ la fame, la voglia di emergere. Questi ragazzi hanno già tutto e spesso non sono abituati a guadagnarsi nulla. Manca lo spirito di sacrificio, che invece noto in molti stranieri. Andremo sempre più in quella direzione: emerge chi ha più fame».
Quali responsabilità hanno i settori giovanili?
«Dobbiamo valorizzare i ragazzi sia tecnicamente sia nel comportamento. Rispetto ed educazione sono imprescindibili. Poi c’è la crescita tecnica, che all’Almè curiamo con istruttori qualificati. Io non sono da scrivania: sto in campo, do suggerimenti e, da metodologo, mi confronto con gli allenatori. Ho il patentino UEFA A e mi tengo aggiornato».
La prima cosa che dice ai ragazzi?
«Di divertirsi. Viene prima di tutto. Ma per divertirsi serve impegno: il calcio è dinamico, bisogna correre. Divertimento e impegno, poi tutto il resto».
Tuffo nel passato: il suo gol al Mantova del 23 maggio 1982, alla penultima giornata, fu decisivo per la promozione in B. Se chiude gli occhi, cosa rivede?
«È stato talmente emozionante che per rendermene conto ho dovuto rivederlo. Ricordo il colpo di testa su cross di Marino Magrin. Pioveva tantissimo. La Curva Nord che applaude, urla, bandiere e coriandoli. Segnare il gol promozione è stato indimenticabile».
Il più bello dei suoi in nerazzurro?
«Probabilmente sì. In generale direi l’intera doppia promozione dalla C alla A. Bellissimi anche il gol in tuffo di testa contro la Sanremese e quello a Padova dopo una triangolazione con Lino Mutti».
All’epoca cosa significava indossare la maglia dell’Atalanta?
«Ho avuto la fortuna dei presidenti Bortolotti, prima Achille poi Cesare. Si giocava per la maglia. Oggi diciamo “la maglia sudata sempre”, allora era un fatto. Quando arrivavano i presidenti, ci caricavano: quella maglia andava onorata, per rispetto dei tifosi che ci seguivano in casa e in trasferta. In C lo stadio faceva 20.000 persone: dovevamo onorarle. Giravano meno soldi – si stava bene, ma nulla a che vedere con oggi – e forse questo cambiava le cose. Oggi è tutto più facile, tutto subito, spesso senza sacrifici».
Chi incarna più di tutti quei valori di sacrificio e appartenenza degli anni ’80?
«Giovanni Vavassori: non mollava mai, nemmeno con dolore. Mi è sempre stato vicino, anche nei momenti difficili. Incarnava lo spirito di sacrificio e i valori bergamaschi. E una parola per Antonio Percassi: insieme a quanto fatto da Gasperini, è stato il valore aggiunto della Dea. Progettualità, fiducia, scelte coraggiose: all’inizio non fu esaltante, ma Percassi credette nell’allenatore e ebbe ragione».
Bisogna fare lo stesso con Juric?
«Credo di sì. Juric non è uno sprovveduto: di calcio ne sa. Ha concetti un po’ diversi da Gasperini, ma va dato tempo e l’opportunità di fare bene».
In classifica, dove può arrivare l’Atalanta?
«È stata un po’ sfortunata con gli infortuni: speriamo finiscano qui. Per me può entrare tra le prime sei e conquistare ancora l’Europa».
Le favorite per lo scudetto?
«Napoli e Inter, ma ci metto anche il Milan. Ho qualche perplessità, ma Allegri ha dato un’impostazione, magari più difensiva, ed è uno che ne sa. Subito sotto la Juventus e poi l’Atalanta, che se la gioca con Roma, Lazio e Fiorentina. Se fosse rimasto tutto come l’anno scorso, giocatori compresi, allo scudetto ci avrei creduto».
Dopo la sosta si riparte in casa con il Lecce: che partita sarà?
«Da interpretare bene: servono i tre punti. Non sarà facile, nessuno è sprovveduto. Ma se l’Atalanta ritrova ritmo e brillantezza, può vincere».
E con il Paris Saint-Germain?
«Sarà una bella partita: in Europa l’Atalanta ha sempre fatto bene. Il PSG è “extraterrestre”, ma la Dea cercherà di fare bella figura. Sarà difficile vincere, ma se la giocherà».
Appese le scarpette al chiodo, è rimasto a Bergamo.
«Sì, con la mia famiglia. Mi piace stare qui. La città è bella e la gente ancora mi riconosce: sono il “Moretto”. È una bella soddisfazione».
Calciatore, allenatore, oggi responsabile tecnico metodologico dell’Almè: il suo futuro?
«Nei settori giovanili. Il progetto che ho sposato è importante e stimolante, anche grazie all’ingresso della Dave Locatelli Agency. Stiamo costruendo dalle basi: per noi è l’anno zero. Abbiamo inserito nuove professionalità. Vogliamo valorizzare i ragazzi e dare a tutti la possibilità di crescere, senza l’obbligo del risultato: non è quello l’importante».
Domenico Moro è rimasto quello di sempre. A Bergamo è ancora il “Moretto”, salutato con affetto da chi non dimentica. Il suo impegno nei settori giovanili, oggi all’Almè, è la naturale prosecuzione di una vita spesa per il calcio: impegno, passione, responsabilità. Perché se il divertimento conta più di tutto, l’impegno non deve mancare mai.
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