Gentile nei modi, lucido nelle analisi e mai sopra le righe: Manuel Belleri è uno di quei protagonisti che lasciano il segno senza alzare la voce. Due maglie che lo hanno accompagnato nel suo percorso da professionista – Atalanta e Lazio – e un’esperienza lunga otto anni in Giappone, come direttore tecnico dell’AC Milan Academy di Tokyo, che lo ha formato come uomo e come tecnico. Oggi, rientrato in Italia, Belleri continua a vivere il calcio con la stessa eleganza e passione di sempre. In vista anche di Atalanta–Lazio, si racconta in esclusiva a TuttoAtalanta.com, tra ricordi, analisi e prospettive.
Manuel, partiamo da Bergamo: come ti eri trovato all’Atalanta?
«Senza nulla togliere ad altre esperienze, l’Atalanta e Bergamo sono stati tra i luoghi dove mi sono sentito meglio in assoluto. Ho abitato a Curno e conservo un ricordo bellissimo di quell’annata: ambiente serio, organizzato e umano insieme. Per un calciatore è fondamentale percepire di essere parte di un progetto».
Alla Lazio, in quel momento, trovavi poco spazio?
«Sì, non rientravo nei piani di Delio Rossi, così arrivò il prestito secco all’Atalanta per dieci mesi. Un’esperienza che rifarei domani: disputammo un ottimo campionato, con compagni di grande valore come Cristiano Doni, Moris Carrozzieri, Tiberio Guarente e Simone Inzaghi, arrivato in prestito con me. Qualità e carattere, si lavorava bene».
Che tipo di allenatore era Luigi Delneri?
«Molto esigente, soprattutto nella fase difensiva, curata con precisione quasi maniacale. Difendevamo con una linea stretta che saliva anche a palla scoperta, cercando spesso il fuorigioco: un sistema complesso, ma efficace. In avanti lasciava più libertà a chi aveva fantasia: un tecnico preparato e coerente, da cui ho imparato tanto».
Con chi sei rimasto in contatto di quella squadra?
«Soprattutto con Cristiano Doni. Lo vado a trovare spesso nel suo centro di padel a Bergamo – mio cugino è suo socio – e ci vediamo quasi una volta al mese. È rimasto un amico vero».
A fine prestito avresti voluto restare a Bergamo?
«Sì, mi sarebbe piaciuto. Ma era un prestito secco e la Lazio aveva il mio cartellino. L’Atalanta mi aveva preso negli ultimi giorni di mercato per sostituire Adriano, ceduto al Monaco. Mi alternai con Rivalta e a fine stagione rientrai alla Lazio. Restare sarebbe stato bello, ma le dinamiche societarie non lo resero possibile».
Se confronti la tua retroguardia con quella attuale della Dea, che differenze vedi?
«Due epoche e due concetti diversi. Con Delneri la fase difensiva era molto “pensata” e coraggiosa; noi funzionavamo bene: c’erano Carrozzieri, leader per fisico e intelligenza tattica, e Manfredini. Oggi l’intensità generale è più alta, ma vedo una difesa solida, compatta e organizzata».
Hai visto all’opera Ahanor? Che impressione ti ha fatto?
«Ottima. A 17 anni mostra personalità e qualità importanti. Non stupisce che Gattuso lo abbia attenzionato per la Nazionale. L’Atalanta ha una tradizione nel far emergere giovani di talento: questo ragazzo può diventare un prospetto notevole».
Il contesto Atalanta è ancora ideale per far crescere i giovani?
«Assolutamente sì. L’Atalanta somiglia molto all’Empoli, dove ho giocato: club costruiti su settori giovanili d’eccellenza e scouting profondo. Ambienti sereni ma esigenti, ideali per crescere. A Bergamo lavorano persone competenti, capaci di valorizzare i ragazzi».
Cosa ha rappresentato la Lazio per te?
«Un traguardo inaspettato e straordinario. Arrivai a Roma in un momento delicato: passaggio da Cragnotti a Lotito, salvezza all’ultimo l’anno prima. Delio Rossi mi volle fortemente. Giocare nella Lazio, in una città che vive di calcio, è stato intenso e irripetibile. Partendo da Lumezzane, non immaginavo di arrivare così in alto: un privilegio».
Guardando all’oggi: come giudichi Atalanta e Lazio?
«L’Atalanta di Juric mi convince: non è facile subentrare dopo un ciclo come quello di Gasperini, ma l’impronta è chiara. In alcune gare ha sofferto, però si vede che il tecnico ha in mano la squadra. In attacco, anche con Lookman non ancora al top, la Dea può fare male. La Lazio vive una stagione altalenante: mercato bloccato, estate complicata, alternanza tra buone prove e blackout. Contro l’Atalanta mancherà Zaccagni: pesa. Resta comunque una sfida equilibrata e affascinante».
Dunque per i biancocelesti ci sono margini di crescita?
«Sì. Sarri è arrivato con pochi rinforzi e diversi problemi da gestire, ma ha avuto il merito di non trasformare i limiti di mercato in alibi. Ha tenuto la squadra concentrata. Può crescere ancora molto».
Atalanta e Lazio puntano allo stesso traguardo?
«Sì: fanno parte delle sei-sette squadre da prime posizioni. Mai come ora la corsa alla Champions è affollata: Napoli, Inter, Milan, Juve, Roma, Lazio e Atalanta si contendono quattro posti. Al momento vedo l’Atalanta leggermente avanti nella corsa europea».
Tra le outsider, chi può inserirsi nella lotta per l’Europa?
«Il Como mi intriga: mercato di alto livello, società strutturata per puntare in alto, allenatore moderno e gruppo tecnico-ambizioso. Potrebbe essere la vera sorpresa nella corsa ai primi sei posti. Bene anche il Bologna, nonostante l’avvio complicato».
Dopo otto anni da direttore tecnico del Milan Academy a Tokyo, cosa fai oggi?
«Da un anno e mezzo vivo sul Lago di Garda e curo allenamenti personalizzati per giovani calciatori. Mi appassiona: mi consente di seguire da vicino la crescita dei ragazzi, cosa più difficile nei settori giovanili professionistici dove i tempi sono stretti. Ho il patentino da allenatore e da direttore sportivo: mi piacerebbe entrare in uno staff tecnico, magari come vice».
Cosa ti ha lasciato l’esperienza giapponese?
«Tantissimo (oltre a un buon inglese!). È stata un’esperienza di vita e professionale incredibile: un cambio radicale, un modo diverso di lavorare e pensare. Ai miei amici dico sempre che se giocare a calcio è bellissimo, Tokyo ci è andata molto vicino: mi ha arricchito come persona».
Il Giappone può offrire profili pronti per la Serie A?
«A livello tecnico sì, sono molto bravi. Sul piano fisico c’è ancora strada, ma il movimento cresce. Hanno avuto ottimi giocatori anche in Italia. In Giappone il calcio è seguito e il merchandising è fortissimo: chi va all’estero trascina media e pubblico. Credo che in futuro vedremo altri giapponesi in Serie A».
L’Atalanta è conosciuta anche in Giappone?
«Molto. Seguono la Serie A con attenzione. Oltre alle big, conoscono e apprezzano l’Atalanta, soprattutto dopo la Champions League. Nel 2020, con i quarti contro il PSG, a Tokyo se ne parlava ovunque: la Dea è diventata un brand internazionale».
Ascoltare Manuel Belleri significa ritrovare il gusto di un calcio raccontato con equilibrio e misura. Tra Bergamo, Roma e Tokyo, l’ex difensore ha costruito una carriera silenziosa ma luminosa, fatta di rispetto e dedizione. Oggi, con la stessa eleganza di un tempo, continua a trasmettere una visione pulita: lavoro, identità, crescita. E un’Atalanta che, con queste premesse, può ancora alzare l’asticella.
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