L'Atalanta vince contro il Novara e festeggia il proprio primato virtuale, quello - impossibile e fuori dalla realtà, ma sognare non è proibito - al netto dei famigerati sei punti di penalizzazione. Fin qui, tutto nella norma: siamo ancora nel campo dei calcoli aritmetici, fondati su una scienza non assoggettabile a opinioni di parte. Quattro più sei, per chi non vive su Marte, dovrebbe fare ancora dieci. Il problema, ammesso che così lo si possa chiamare, comincia quando alla voce numeri compare quel gigantesco "27" in mano agli aficionados in Curva Pisani. Figuriamoci, poi, quando Luca Cigarini, autore della maestosa carocchia sotto il sette per il raddoppio, si produce nell'arcinota esultanza del mento sollevato con il palmo. Apriti cielo, i fulmini e le saette della stampa forcaiola si abbattono sulla Bergamo che ama il pallone. In un articolo dal senso più inestricabile di un ginepraio a firma Gabriele Romagnoli, apparso martedì 27 settembre - non proprio una serie di impressioni a caldo, insomma -, un potentato della stampa nazionale come "Repubblica" si autoattribuisce la parte dell'indignato speciale. Guai a parlare del paria: due gradi di giudizio della giustizia sportiva fondati sul nulla (giuridicamente parlando), agli occhi di chi crede nel sistema come a una limpida fonte di verità evidentemente dovrebbero comportare una sorta di damnatio memoriae. Ovvero una rimozione collettiva di Cristiano Doni, che se non viene dipinto come Belzebù in persona poco ci manca, da tutto ciò che riguarda la città, l'entourage nerazzurro, il popolo del tifo e perfino lo spogliatoio. Il capolavoro da tastiera è lì da leggere, basta cliccare sul link in bluette riportato poco più sopra: al lettore l'onore e l'onere di farsi un'opinione in merito. Quel che desta sconcerto, dal punto di vista di chi a Bergamo ha la ventura di lavorarci, è che dall'esterno si guardi a casa d'altri con toni a metà fra il faceto e lo scandalizzato, conditi da punte di saccenza degne di miglior causa. La solita solfa dell'intellettuale sprovincializzato che assume l'altezzoso atteggiamento di superiorità di chi fa la tara ai difetti del presunto scemo del villaggio, roba già vista per tutta estate sulle pagine di un notissimo papiro da emeroteca che sta perdendo centinaia di acquirenti in edicola al giorno.
Che Doni sia colpevole o meno, con ogni probabilità, possono saperlo solo l'interessato e l'Onnipotente. Un rapporto a due sul quale non è lecito mettere il naso, anche se Romagnoli arriva a sostenere che per il Ciga e la Dea esiste piena identità tra il capitano e l'Entità Superna, riducendo gli sportivi bergamaschi ad accoliti di un culto della personalità dedito all'ostensorio della tanto deprecata maglia. Che contro di lui non sia stato prodotto uno straccio di prova e la condanna sia fondata su elementi indiziari assolutamente discutibili, sono altri due fatti abbastanza incontestabili. Forse nemmeno l'articolista avrebbe piacere di concludere la propria gloriosa carriera sulla base dei sentito dire, della messa alla berlina dei suoi stravizi veri o presunti, di intercettazioni indirette in cui si fa uso del suo nome per millantare garanzie presso una cupola di malaffare, e infine delle dichiarazioni prive di riscontri oggettivi rese da chi aveva tutto l'interesse di sfuggire alla carcerazione preventiva prima e ottenere uno sconto di pena poi. Che il palazzaccio della Federcalcio si muova su canoni al di fuori e al di sopra della Costituzione, visto che in questo caso è l'accusato a doversi discolpare a fronte di un'accusa non tenuta per principio a esibire alcunché di attestato e verificabile, sono altre certezze sulle quali si sorvola beatamente. Quanto alla presunta colpevolezza "per un brutto impiccio di scommesse", viva la verifica delle fonti: Doni non è stato dichiarato colpevole per aver scommesso su partite combinate, ma perché sospettato di aver addomesticato Atalanta-Piacenza attraverso una stretta di mano con Carlo Gervasoni. Circostanza che a Romagnoli non poteva passare per l'anticamera del cervello di citare, perché avrebbe ineluttabilmente sbugiardato il paradossale doppiopesismo degli organi giudicanti della Figc in materia di hand-shaking prepartita: "indizio grave e coincidente" che nel caso di Thomas Manfredini, per dire, è miseramente crollato all'impatto con la Corte di Giustizia Federale.
Il colmo dei colmi, però, è riservato dalla penna benpensante al pubblico di chi è disposto a bersi le sue verità al sapore di zolfo nell'incipit del terzo dei quattro paragrafi: "Allora perché quell'idolatria del 27, quei gesti in onore di chi è stato condannato e ha fatto condannare? Può domandarselo un marziano, non uno che viva su questa terra italiana. Qui non ci sono colpevoli, ma perseguitati. Non soltanto Doni. Da Lotta Continua nel 1977 ai pasdaran di Berlusconi nel 2011, generazioni si sono tramandate la parola chiave che apre la porta se non della cella, dell'autoassoluzione: complotto". Accantonando per carità cristiana certi paragoni indecenti, a suscitare sconforto è il ricorso alla mistica dell'eroe perseguitato. Utile al secondo giornale quotidiano più letto d'Italia a raffigurare il calciofilo bergamasco alla stregua di cane pavloviano pronto ad eternare la teoria del riflesso condizionato, come se chi paga il biglietto per entrare allo stadio fosse comandato a bacchetta da una sorta di microchip sotto la volta cranica contenente il curriculum del fantasista-recordman e le sue onoreficenze pubbliche. Ma all'orizzonte si staglia un altro interrogativo inquietante: perché mai il pubblico dell'"Atleti Azzurri d'Italia" dovrebbe essere tenuto alla demolizione preventiva dell'uomo e del professionista Doni? Ci si aspettava, forse, che due organismi della burocrazia pallonara, certamente non spacciabile per un corpo dello Stato qual è la magistratura ordinaria, fossero in grado di assumere decisioni rispettabili per partito preso e al di là di ogni ragionevole dubbio? Perché questi ultimi, caro Romagnoli, dovrebbero venire a chi fa di sentenze senza precedenti una sorta di moloch vincolante per i comportamenti di massa. Sarebbe forse ora di scendere dalla torre d'avorio e misurarsi con la realtà: il cittadino, categoria cui afferisce anche il lettore, dispone del libero arbitrio e con esso della capacità di giudicare i fatti, ancor prima che le opinioni. La gente, tirando le somme, si rifiuta di pensare con il cervello di Palazzi o con quello dei giornalisti. Per fortuna.
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