Due titoli, due sguardi, la stessa anima: quella della Curva Nord dell’Atalanta. Il regista bergamasco Andrea Zambelli, autore di lungo corso nel cinema del reale, ha firmato «Farebbero Tutti Silenzio» (2001) e «A guardia di una fede» (2023): opere che, a oltre vent’anni di distanza, compongono un racconto unico sul mondo ultras nerazzurro. Il primo film nasce dalla volontà di mostrare la vita di Curva dall’interno, oltre luoghi comuni ed etichette. Il secondo ripercorre trent’anni di storia attraverso la voce di Claudio «Bocia» Galimberti, figura simbolo del tifo atalantino. Uomo di Curva anche lui, Zambelli restituisce la dimensione più autentica di quel mondo: solidarietà, passione, spirito collettivo. E ora, a un anno e mezzo dall’uscita, «A guardia di una fede» torna in DVD con 11 contenuti extra inediti, arricchendo una narrazione già entrata nella memoria condivisa della città.
Andrea, partiamo dalla tua passione per l’Atalanta. Quando nasce?
«Intorno ai 19 anni. Ho sempre giocato a pallone, ma non venivo da una famiglia atalantina - confida, in esclusiva ai microfoni di TuttoAtalanta.com -: la mia passione era per il calcio in generale. Da bambino le squadre di riferimento erano le grandi dell’epoca; poi è stata la frequentazione della Curva, una volta cresciuto, a rendermi atalantino».
Oggi i risultati positivi hanno avvicinato tante nuove generazioni. Che cosa vedi attorno a te?
«Quando vado a prendere mia figlia, che è in quarta elementare, vedo sempre più bambini con la maglia dell’Atalanta. I bambini vogliono vedere la propria squadra vincere, è naturale. La cosa più bella, però, è vedere ragazzini di origine magrebina, africana e asiatica con la stessa maglia. Ne vedo sempre più spesso anche in Curva. L’Atalanta genera senso di appartenenza e, attraverso la passione nerazzurra, questi ragazzi di seconda generazione si sentono accolti».
Ricordi la tua prima partita in Curva?
«Avevo 17 anni e mezzo e non ero mai stato allo stadio. All’inizio degli anni ’90, nell’ultimo quarto d’ora aprivano i cancelli: anche chi non aveva il biglietto poteva respirare l’aria dello stadio. L’impatto fu fortissimo, mi sembrò di entrare in un altro mondo. Da lì è nato tutto: l’Atalanta è diventata passione e pretesto per stare insieme, un rito collettivo. Lavoro e viaggi mi hanno spesso portato lontano, ma oggi continuo ad andare in Curva con la mia compagna».
Hai firmato due film sulla Curva. Essere “uno di loro” ti ha aiutato a raccontarla? Esiste diffidenza verso chi arriva da fuori?
«La diffidenza esiste ed è figlia del modo in cui i media hanno spesso strumentalizzato quel mondo, raccontandolo a seconda delle esigenze. L’essere parte della Curva e la fiducia di tanti ragazzi mi hanno aiutato; c’è stata anche la lungimiranza di alcune persone, che hanno visto nel film l’occasione per raccontarsi onestamente per la prima volta».
Partiamo da «Farebbero Tutti Silenzio» (2001). Cosa volevi mostrare?
«Era il mio primo film. Studiavo cinema al Dams di Bologna e avevo seguito un corso da operatore digitale: era l’avvento delle prime camere digitali. La rivoluzione tecnica del reale permetteva di portare la macchina dove prima era quasi impossibile. Frequentando la Curva, vedevo una discrepanza enorme tra il racconto mediatico e la realtà vissuta. Ho provato a colmare quel varco con uno sguardo interno».
Quali aspetti volevi far emergere che non arrivavano all’esterno?
«Soprattutto la grande aggregazione degli anni ’90, l’autogestione, il fatto che la Curva fosse regolata da assemblee e senza fini di lucro: a Bergamo si è sempre creduto nella non-mercificazione del tifo. Da ragazzino ammiravo il forte spirito di solidarietà: la Curva si spendeva (e si spende) in tantissime iniziative benefiche. I media non lo raccontavano: la cronaca riduceva tutto a teppismo e criminalità. In realtà è un mondo molto più sfaccettato».
A chi si rivolgeva il film?
«A tutti. Ho cercato uno specchio comunicativo ampio: un’opera che parlasse alla Curva perché la rappresentava, ma anche a chi non la conosceva. Il riscontro fu immediato, anche grazie ai festival di Bellaria e Genova (secondo premio). In quell’occasione conobbi Davide Ferrario: da lì nacque una collaborazione con lui e Andrea Zanoli. Siamo una troupe nerazzurra al 100%: quando gioca l’Atalanta, si stacca tutto e si guarda la partita».
Nel 2023 esce «A guardia di una fede». Quando hai capito che c’era un secondo film?
«Negli anni ho continuato a girare ogni volta che andavo in Curva. Nel 2017 mi sono reso conto che la mole di materiale era enorme. Ho rivisto i girati: con un arco di osservazione 1993–2017 capisci che c’è una storia. Ho raccolto tutto in un secondo film, che tuttora è in sala e a dicembre uscirà in DVD. All’estero ha avuto grande interesse: in Germania abbiamo fatto perfino più spettatori che in Italia, grazie a una distribuzione locale e a una fanzine specializzata. Bene anche in Grecia, Austria, Svizzera tedesca; curiosità da Malesia e Marocco».
Nel DVD ci saranno contenuti inediti?
«Sì, 11 extra. Trent’anni non entrano in un film. Gli extra raccolgono immagini inedite. Stiamo valutando la distribuzione: pensiamo a punti fisici sul territorio (le sedi Lab 80 film, l’auditorium, Schermo Bianco e una location centrale vicino allo stadio). Il passo successivo potrebbe essere lo streaming».
Ci anticipi qualcosa degli extra?
«Un derby Atalanta–Brescia (2000): ho girato l’intera giornata per restituire il clima del derby, allora la partita più sentita. All’epoca si lottava per salvezza e vittoria con il Brescia. C’è una trasferta a Roma in treno, oggi un altro mondo, che voglio far conoscere ai più giovani, e la partita col Milan che ci regalò la prima qualificazione europea, con la fiumana in centro: nel film c’erano spezzoni, nel DVD c’è un montaggio di 35 minuti. E poi le immagini dell’Everton a Reggio Emilia».
Rispetto alla coralità delle interviste del 2001, in «A guardia di una fede» la voce narrante è il Bocia. Perché questa scelta?
«Perché serviva un filo conduttore. Una voce unica capace di guidare lo spettatore attraverso trent’anni. Claudio Galimberti ha una potenza espressiva altissima: sa argomentare, usa la parola con efficacia, è un simbolo della tifoseria. È stata la scelta giusta».
Alla festa per i 118 anni della Dea e all’inaugurazione della statua dell’Europa League il tuo pensiero è andato anche a lui.
«La statua è dedicata agli amici scomparsi che non l’hanno potuta vivere, ma alcuni ragazzi mi hanno fatto notare che anche Claudio non l’ha vissuta come avrebbe voluto. Dentro quella vittoria c’è il merito della società e di Gasperini, ma ci sono anche i tifosi. Ricordo il 7-1 con l’Inter al primo anno del Gasp: a Zingonia c’erano mille persone ad applaudire una squadra che stava facendo qualcosa di eccezionale. Il legame tra territorio, squadra e Curva non nasce dal nulla: è stato costruito negli anni. Per me, dentro quella coppa, c’è anche la Curva. E un po’ ci sta anche Claudio, che si è speso tanto e sta pagando oltremisura: è al trentatreesimo anno di diffida. Presentando il film in Germania, per loro era inconcepibile».
Cosa distingue un tifoso appassionato da un ultras?
«Quello ultrà è un modo di vivere che va oltre la partita: è un modo di stare insieme e vivere la città. Parlo dell’ultras atalantino. C’è solidarietà e attenzione alle realtà meno fortunate; poi c’è un’idea di scontro rituale con le altre tifoserie, ma con rispetto. Altrove le cose sono degenerate; a Bergamo non è mai girato un coltello. Il tifoso segue la squadra; l’ultras ne fa una modalità di vita. Come dice Claudio nel film, è una tribù con valori importanti in una società spesso asociale».
La Curva è ancora attrattiva per i più giovani?
«Quando l’ho vissuta io, per un ragazzino ribelle era il massimo: imparavi che l’autogestione tra le persone è importante. Oggi i ragazzi hanno meno spazi per esprimersi, con impegni incastrati uno dopo l’altro. La Curva conserva attrattiva: ti dà un motivo in più per stare al mondo e un luogo collettivo di espressione, spesso negato. Certo, oggi è diversa: ci sono interventi normativi e il legame al sistema calcio la espone a contraddizioni. Il calcio è diventato un business globale: forse non ha più la funzione di rito collettivo che aveva. È più televisivo. E l’ingresso di capitali stranieri a mio avviso droga il sistema. Ci sono dinamiche poco virtuose che ne minano la credibilità».
Che idea ti sei fatto dell’Atalanta di Juric?
«Con il Milan mi sono divertito. Grande primo tempo e, soprattutto, lotta fino all’ultimo: è ciò che la Curva vuole vedere. Si può anche perdere, ma dando tutto. Forse si poteva osare un po’ di più nel finale: il Gasp ci aveva abituati a provare a vincerla sempre, anche a costo di perderla, e questa è un’attitudine che mi piace anche nella vita. Detto questo, arrivare dopo un ciclo di nove anni è complicato. Ci eravamo abituati a gioco e intensità che hanno fatto la nostra fortuna. Juric pratica un calcio più conservativo: baricentro più basso, più attenzione difensiva, davanti meno brillantezza e meno seconde palle vinte, che erano il nostro marchio e spaventavano gli avversari. Resta che con Gasperini abbiamo vissuto momenti magici e visto giocatori straordinari».
Chi ti ha esaltato di più in quei nove anni?
«Quando ha spostato il Papu a centrocampo abbiamo fatto una stagione incredibile: gli ha reinventato il ruolo. E poi Ilicic: gli ha trovato la posizione ed è diventato incontenibile. Per me è il più forte visto a Bergamo: un genio con migliaia di soluzioni, capace di tenere in scacco chiunque. E la gente lo ama anche per la sua storia umana».
Visto che non ami i pronostici, chiudiamo con un aneddoto legato all’Udinese.
«Ricordo una gara in casa nel 2000: una delle prime volte in cui portai la camera in Curva per “Farebbero Tutti Silenzio”. Si giocava alle 15: andai allo stadio alle 10 per riprendere gli striscioni. Era la giornata in cui si ricordavano Chicco Pisani e Ale Midali. Un altro episodio: una partita con l’Udinese alla vigilia di una trasferta a Trieste per lavoro. Io e Zanoli ripartimmo a fine gara, vestiti da stadio, con sciarpe nerazzurre. In autogrill, entrò un pullman dei tifosi dell’Udinese di ritorno da Bergamo: non successe nulla, ci guardarono con aria interrogativa, ma all’inizio ci prese un colpo (ride)».
Con lo sguardo di chi la Curva la vive e non la osserva da lontano, Andrea Zambelli continua a raccontare l’Atalanta come comunità prima che come squadra. Derby, trasferte, partite epiche e attimi di vita: tasselli di un mondo che cambia senza tradire sé stesso. Un omaggio alla Curva e a chi, negli anni, ne ha custodito l’anima.
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