Giorgio Pesenti non è solo un nome negli annali del calcio bergamasco: è una leggenda vivente del dilettantismo. Fisico imponente, fiuto del gol letale e una leadership naturale, il «Peso» ha scritto pagine memorabili sui campi di provincia, siglando la bellezza di 273 gol. Un percorso che affonda le radici nel settore giovanile dell’Atalanta, in quella mitica classe del ’75 che ha sfornato talenti come Morfeo, Tacchinardi e Locatelli. Lì ha imparato disciplina, tecnica e mentalità vincente, un bagaglio che poi ha riversato nei campionati lombardi, diventando un incubo per le difese avversarie.

Giorgio, facciamo un salto indietro: come arrivasti all’Atalanta?
«Giocavo nella Tritium e fui notato durante un’amichevole a Zingonia - racconta e confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. Da lì iniziai ad allenarmi con "il Maestro" Bonifaccio al campo militare. Ricordo ancora con emozione la lettera di convocazione che arrivava ogni anno a luglio, dagli Esordienti fino alla Primavera: un piccolo rito che segnava l’inizio della stagione. Non c’erano procuratori o intermediari: restavi in attesa e la conferma arrivava per posta. Purtroppo, l’ultimo anno al posto della lettera dell’Atalanta trovai la cartolina per il servizio militare. Una sorpresa amara».

Eri un bomber già da piccolo?
«No, assolutamente! Ho iniziato nel vivaio nerazzurro facendo il mediano, giocando accanto a mostri sacri come Tacchinardi e Morfeo. I gol li facevano loro. La mia trasformazione in attaccante è avvenuta molto dopo, nei dilettanti, superati i vent'anni».

Facevi parte della mitica "banda dei ’75".
«Sì: Morfeo, Tacchinardi, ma anche Chicco Pisani e Thomas Locatelli. Morfeo era un fenomeno puro, Tacchinardi il maestro in mezzo al campo. Si vedeva lontano un miglio che avevano le qualità per diventare professionisti, erano una spanna sopra gli altri. In quegli anni vincevamo ovunque. Il settore giovanile, guidato da Mino Favini, era eccezionale e quella squadra era un sogno».

Un ricordo indelebile di quegli anni?
«Abbiamo girato l'Europa: Germania, Francia, ma ricordo soprattutto la vittoria a Matera nel primo torneo internazionale "Gaetano Scirea", battendo Real Madrid e Dinamo Kiev. Era il primo anno di Morfeo a Bergamo: lui era un ’76, ma era talmente forte che fu aggregato al nostro gruppo e ci fece vincere il torneo praticamente da solo. Aveva numeri spaventosi, tecnicamente era un extraterrestre. Anche Tacchinardi aveva una visione di gioco incredibile. Il mio compito era semplice: correre, recuperare palla e darla a loro».

Ed era difficile perdere.
«Ricordo un Campionato Nazionale Allievi vinto allo stadio di Bergamo con Prandelli in panchina. Io però non giocai quella finale perché mi avevano "beccato" a scuola, durante gli esami, mentre fumavo una sigaretta. Col senno di poi, fu giusto così. Certe punizioni servono, forse è quello che manca ai ragazzini di oggi».

Chi ti aveva scoperto?
«Vavassori. La disciplina era ferrea. All’Atalanta controllavano tutto, anche il rendimento scolastico. Con Eugenio Perico, ad esempio, orecchini e capelli lunghi erano vietati. Io avevo tre orecchini e un piercing al naso: dovevo togliere tutto prima di varcare i cancelli di Zingonia».

Il calcio giovanile di oggi è diverso?
«Il nostro era un calcio pane e salame. Entravi nello spogliatoio sapendo che fuori c'erano centinaia di ragazzini pronti a prendersi il tuo posto. Ce lo ripetevano sempre. A sedici anni ho iniziato a lavorare con mio padre nell’impresa di famiglia, incastrando tutto con gli allenamenti e spostandomi in motorino. È stata una scuola di vita fondamentale, merito di maestri come Ernesto Modanesi, Titti Savoldi, Perico, Vavassori e Prandelli. Ognuno mi ha lasciato qualcosa».

Proprio nei giorni scorsi ci ha lasciato Eugenio Perico. Che ricordo hai di lui?
«Un uomo di fede profonda. Prima dei tornei ci portava tutti a Messa, cosa oggi impensabile. Per lui l’educazione veniva prima di tutto, non tollerava comportamenti fuori dalle righe. L’avevo rivisto anni dopo e si ricordava ancora di me. È un ricordo che custodirò per sempre».

Chi ha fatto la differenza nella tua formazione?
«Come compagni dico Morfeo, Tacchinardi e Locatelli, perché mi hanno fatto capire che, tecnicamente, ero scarso rispetto a loro (ride, ndr). Come allenatori, Savoldi era un fenomeno sulla tecnica, Perico un maestro di mentalità: preparava le partite in modo maniacale, arrivavamo al campo sapendo già cosa fare. Modanesi mi ha formato tatticamente, Prandelli era completo e Vavassori ci trasmetteva una grinta unica. Non insegnavano solo calcio, ma rispetto e sacrificio. Ho rinunciato a tante serate con gli amici, ma ne è valsa la pena».

Come reagisti alla mancata conferma nell'Atalanta?
«Ci rimasi malissimo. Parlai con Favini e la società, mi spiegarono che non avevo ancora il fisico pronto per il salto. In effetti, nell'ultimo anno ero cresciuto di venti centimetri di colpo, arrivando a 188 cm, e questo mi aveva causato problemi muscolari. Da lì iniziai un lavoro in palestra per costruire potenza ed esplosività, arrivando a 90 chili. Nei dilettanti, poi, quello strapotere fisico faceva paura».

Paura confermata dai 273 gol...
«È stato un percorso devastante. Ho vinto 13 campionati, giocando con gente come Alessio Dionisi e Roberto Bortolotto. Quando passai nei dilettanti avevo una forza fisica doppia rispetto agli altri. Pierluigi Zambelli fu il primo a schierarmi punta, trasformando la mia esperienza da mediano in quella di un attaccante completo».

Credi che il calcio di provincia ti abbia dato qualcosa che il professionismo ti avrebbe tolto?
«Sì. A Bergamo ho lasciato un ricordo indelebile, la gente ricorda ancora i miei gol e questo vale più di una carriera anonima tra i pro. Avevo offerte in C, ma rischiavo di essere solo un numero. Ho preferito essere protagonista in Interregionale. Certo, a forza di sentirmi dire che meritavo di più, il dubbio di aver sbagliato scelta mi è venuto».

E che risposta ti sei dato?
«Che mi mancava qualcosa. Forse se avessi incontrato prima un tecnico come Stefano Vecchi avrei colmato quelle lacune e fatto il grande salto».

A Trezzo hai iniziato e chiuso. La Tritium è casa?
«Lì mi avrebbero fatto sindaco! È stato un periodo bellissimo e cruciale per la mia carriera».

Hai citato Stefano Vecchi, oggi tecnico dell'Under 23 dell'Inter. Può ambire a grandi panchine?
«Vecchi mi ha allenato alla Tritium dopo un infortunio al crociato. Per me è uno dei migliori tecnici mai avuti, lo vedrei bene anche all’Atalanta. Preparatissimo, bada al sodo. Lascia fronzoli e interviste agli altri perché il calcio si fa sul campo».

Perché non sei rimasto nel calcio?
«Ci ho provato, collaborando anche con Paolino Pulici in un progetto per bambini. Mi facevano festa, ma non sentivo quella strada come mia».

Cosa pensi dell’Atalanta di oggi?
«Sono tornato allo stadio contro il Cagliari dopo una vita. L'ultima volta c'ero stato contro l'Inter di Ronaldo il Fenomeno. Mi sono venuti i brividi ricordando le partite giocate lì da ragazzino. La squadra mi è piaciuta molto, soprattutto Scamacca: ho apprezzato la sua determinazione e i movimenti da punta vera. È un gruppo organizzato con una mentalità solida».

Dove può arrivare?
«Gasperini ci aveva abituati a non perdere, ma essere vincenti è un'arma a doppio taglio perché ora nessuno ti affronta più come una provinciale. Sarà dura, ma credo che l'Atalanta possa giocarsela con chiunque e ambire ancora a traguardi importanti. È diventata una realtà rispettata ovunque».

Pronostico per la sfida con l’Inter?
«Sono scaramantico: incrocio le dita e non dico nulla».

Oggi Giorgio Pesenti resta un'icona: i suoi gol e i campionati vinti dimostrano che il talento non brilla solo a San Siro, ma anche sui campi di provincia. Il legame con l’Atalanta e l’amore per la sua terra hanno fatto di lui un esempio di carisma e disciplina che continua a ispirare le nuove generazioni.

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© foto di Giorgio Pesenti
© foto di Giorgio Pesenti
© foto di gentile concessione intervistato
© foto di gentile concessione intervistato
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Sezione: Primo Piano / Data: Mar 23 dicembre 2025 alle 00:00
Autore: Claudia Esposito
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