Non esiste tennista al mondo che subito dopo l'ultimo game decisivo perso, pensi che quella sconfitta sarà un insegnamento per il futuro. Non c'è ciclista al mondo che, lasciato sui pedali e staccato sulla salita decisiva, una volta tagliato esausto il traguardo legga quell'arrivo come una lezione per il domani. Non c'è ultimo rigore sbagliato, tiro da tre sulla sirena fallito, ultima bracciata mancata nei cento stile, tuffo sbilenco all'Olimpiade o rovinoso inciampo nei centodieci a ostacoli che lì, immediatamente, a caldo, quando il cuore ancora esplode e l'anima brucia, possa esser raffigurato come un germoglio. Fallimento. Ecco cos'è quel sapore dell'amara sconfitta, della caduta, della rovina, dello sprofondo. Le parole di qualche tempo fa di Giannis Antetokounmpo, uno dei più forti giocatori di basket dei nostri tempi, sangue nigeriano e fisico di un Dio greco, risultano così come una favola vuota, quasi ipocrita. Da primi della classe dopo la regular season, i suoi Milwaukee Bucks sono usciti con quelli che sono l'autentica sorpresa delle Finals NBA, i Miami Heat, ottava forza però della stagione regolare. Un cronista di The Athletic provò a chiedergli se quell'eliminazione potesse esser considerata "un fallimento", lo stesso che provai a fare un anno fa quando poi Massimiliano Allegri accusò di 'disonestà intellettuale' chiunque volesse utilizzare quei termini. Il Greak Freek ha risposto al cronista con queste rime. "Mi hai fatto la stessa domanda lo scorso anno, Eric. Per caso tu ricevi una promozione ogni anno nel tuo lavoro? Non credo, quindi consideri il tuo lavoro un fallimento ogni volta che non accade? Direi di no. Ti impegni per ottenere altri risultati, per prenderti cura della tua famiglia, comprare una casa e tante altre cose. Non è un fallimento, ma è un passaggio necessario per provare a vincere".
Il fallimento nello sport, il fallimento nella vita
Fallimento nello sport non è fallimento nella vita. Fallire significa cadere, tradire le aspettative, le premesse, le promesse, mancare un obiettivo, crollare, capitolare. Provarci e non riuscirci in modo inatteso e rovinoso. Il punto non è nel significato della parola stessa, ma in quel che poi ne deriva. Il problema è la mancata accettazione della sconfitta, delle proprie mancanze e lacune. Lo sport ha vestito uomini con capacità straordinarie con mantelli da supereroi e questi hanno scordato la loro fragile essenza. La sostanziale differenza che Antetokounmpo e anche Allegri non hanno capito è che c'è un abisso tra fallire e arrendersi. Il resto sono alibi e giustificazioni, appigli e placebo per la delusione che porti dentro, tu e i tifosi che ci hanno creduto, che ci hanno sperato. Giannis uscirà più forte da questa caduta contro gli Heat, e lì è il segreto. Capire, studiare, rialzarsi, ripartire, levigando e smussando gli errori di quel fallimento sportivo, non certo umano.
Come chiamare la stagione di Allegri?
Il lungo antefatto per arrivare alla sostanza della questione. Come definire la stagione di Massimiliano Allegri, se non un fallimento? Già prima che il cda della Juventus si dimettesse a fine novembre, e iniziasse il balletto delle inchieste, dei punti e delle penalizzazioni, Massimiliano Allegri aveva già pareggiato tre delle prime cinque in campionato, poi perso tre delle quattro gare successive con un pari in mezzo (uno dei ko a Monza, due su due in Champions). Aveva perso in Israele col Maccabi e in Portogallo col Benfica e in casa col PSG, giusto perché urge ricordare che la Champions League era già andata e il Napoli stava già prendendo il largo. L'uscita in Europa League contro il Siviglia, la Coppa Italia che sfuma, le scelte di mercato fatte in prima persona e poi rivelatesi tutt'altro che azzeccato. Un gioco che non c'è mai stato pur al netto di tutti gli appigli, le sentenze e via discorrendo. Ma anche nei momenti di sprofondo, la Juventus non ha mai potuto aggrapparsi alle idee, agli schemi, allo spettacolo. Semplicemente perché non è mai stata in grado di offrirli. Come chiamare questa stagione, queste due stagioni senza un trofeo, queste due annate dove il tecnico ha nella sua interezza il pubblico contro? Come può la Juventus pensare di non cambiare direzione?
Come chiamare la stagione di Mourinho?
Sullo Special One il discorso è diverso, almeno nel rapporto col pubblico. Perché Roma ha bisogno di un Imperatore nel quale rispecchiare la sua bellezza, la sua gloria passata e i suoi sogni futuri. Per questo la famiglia Friedkin ha scelto l'adone calcistico più luminoso dei tempi recenti. Chi meglio di José da Setubal per guidare un popolo ebbro d'ammirazione per le sue gesta? Così l'amore cieco della piazza per il suo allenatore non deve esser giudicato neanche per un attimo, perché i sentimenti si rispettano e basta. Però nell'analisi delle parole e della stagione di Mourinho, la riflessione dall'esterno sembra duopo farla. Il gioco? Antico. Barricate, pullman, difensivismo estremo. Spettacolo? Nessuno, se non quello di bassa lega della sua panchina e delle sue proteste. Le parole violente contro i Friedkin, contro Tiago Pinto, contro gli arbitri, contro il sistema, suonano di un calcio che oramai sta prendendo a livello comunicativo altre direzioni. E i trofei? Mourinho ha riportato una Coppa a Roma, la Conference League, e ha sfiorato l'Europa League. Però la seconda l'ha persa, così ha perso di nuovo un posto in Champions, così ha perso nuovamente la chance di rispettare la sua proprietà piuttosto che accusarla con frasi pro domo sua. "Ha speso solo 7 milioni". Già. Ma i parametri zero? I maxi ingaggi? I nomi sul mercato scelti (tutti) da lui, a uso e consumo della sua visione? Mourinho non mente, mai. Solo che omette parte della storia. Come può esser chiamata se non fallimentare questa stagione dove la Roma ha mancato ogni obiettivo che si era prefissata?
Autore: Red. TuttoAtalanta.com
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