Prima della partita avevo detto che saremmo venuti qui a Brighton per vincere, e un paio di giornalisti inglesi si sono messi a ridere. Adesso dove sono? Non li vedo…”. Matias Almeyda alza gli occhi verso la platea, la sala della conferenza stampa, e incontra solo silenzio al termine della gara di Europa League, l’esordio del suo AEK Atene è andato benissimo, e dall’Inghilterra torna con tre punti, dopo aver battuto la squadra più ammirata e studiata del Vecchio Continente. È l’ennesima battaglia vinta per un tecnico che, per motivi incomprensibili (o forse comprensibilissimi), l’Italia non ha mai, o non ha ancora, chiamato.
Al nostro Paese, Almeyda deve molto, per sua stessa ammissione. È diventato calciatore importante, in quella Serie A che era la Premier League di adesso, nella Lazio, pure scudettata di Eriksson (dove gli è capitato di giocare in mezzo al campo con…Roberto Mancini: “ quelle continue corse mi sa che mi hanno accorciato la carriera”, ci dice scherzando Matias, ricordando quegli anni romani in cui condivideva il centrocampo con Sergio Conceiçao e Nedved, solo in parte “assistito” da Simeone e Veron), nel Parma e nell’Inter, facendosi apprezzare ovunque per le doti di calciatore e quello di uomo. Non c’è una tifoseria incrociata sul cammino che non sia stata fiera di aver avuto in mezzo al campo, con la loro maglia, quel guerriero argentino. La differenza la fanno i comportamenti, e i valori. Ma i fuoriclasse della vita scivolano di fronte ad avversari insormontabili come le malattie. La depressione, nel caso di Matias, aveva svuotato il leone.
Chi gli ha dato le forze di riprendersi è stato l’amore, sotto forma di un disegno. Quello della prima figlia di Almeyda, che appunto aveva rappresentato il papà, con matita e colori, come il re della giungla ma senza denti. Matias ha riavviato la sua vita con quel colpo all’anima,. Ed è tornato il samurai che era ed è (negli spogliatoi, i riferimenti di Matias al guerriero giapponese sono continui). Senza essere dotato di quella forza d’animo non avrebbe avuto la forza di prendersi sulle spalle, anzi, nella carne l’incarico di riportare nella massima serie argentina il suo River Plate, appena retrocesso, per la prima volta nella sua storia. Almeyda non ha pensato, ha accettato la legge del cuore: ha smesso gli scarpini e preso l’uniforme del tecnico. Non c’era nessun altro risultato che l’immediata promozione, e la promozione è arrivata. Il River ha poi vinto trofei in serie con Marcelo Gallardo, ma tutto è partito da quella resurrezione. In molti, anche a Nunez, sede della società, tendono a mettere da parte, a far cadere nel dimenticatoio quella stagione. “Noi invece non la dimenticheremo, noi e le nostre famiglie”. Mai la parola conveniente, Matias, sempre quella giusta. Anzi Giusta, maiuscola, come rispondere a quel codice morale che contraddistingue la sua vita.
Al termine della gara contro il Brighton, ha detto del suo rivale di serata, “con De Zerbi abbiamo un fratello di vita in comune, Lele Adani, e lo ammiro e lo rispetto, come allenatore, e soprattutto come uomo". Che per Matias, viene sempre prima. In un mondo con sempre più furbi e parassiti come quello del calcio attuale, è forse per quello che raccoglie pochi peana, specie qui in Italia. Che poi a guardare il curriculum, sarebbe anche straordinario, in termini di obiettivi e successi raggiunti. Dal piccolo Banfield (lui inizia la carriera del Cholito Simeone) al gigante messicano delle Chivas Guadalajara dove vince campionati e Champions nordamericana. Poi si trasferisce nella Silicon Valley e ricostruisce la franchigia di San José, ridandogli dignità in campo e formando una serie di giocatori (presto sentirete parlare di Cade Cowell: lo ha lanciato lui). Foss’anche senza il passato italiano (aggiungerei 40 presenze nella nazionale argentina dove si faceva fatica persino ad essere convocati, vista l’abbondanza di qualità), avrebbe certamente meritato un minimo di attenzione da parte di una Serie A. Che però sembra allergica a facce nuove (qualcuno direbbe pulite), o quantomeno fuori dal solito giro.
Poco male, Almeyda ha scelto di arrivare in Europa andando in Grecia: “Mi hanno presentato il progetto, io gli ho mostrato nei dettagli cosa faccio e perché lo faccio e abbiamo trovato un accordo". Accordo che al primo anno ha già prodotto, contro ogni pronostico, la vittoria di campionato e coppa di Grecia. Anche qui tra il silenzio generale, almeno quello dei media italiani, salvo rare e preziose eccezioni. La nuova stagione è iniziata con i preliminari di Champions,dove ha prima fatto fuori la Dinamo Zagabria poi si è arreso al catenaccio dell’Anversa di van Bommel: un peccato sia arrivato al ritorno, dopo aver dominato l’andata, con qualche infortunio di troppo, specie davanti. Eppure,in quella notte di Atene, la prima in cui i nuovi tifosi di Matias hanno assaporato il sapore della sconfitta in campo, lo stadio ha provveduto a ricoperto di applausi i giocatori e il tecnico. Avevano dato tutto, anche un po’ di più visto i valori impari tra le contendenti. Non sapevano ancora della serata memorabile di Brighton, o di quella di lunedì, con l’AEK che ha vinto il derby col Panathinaikos in rimonta. Non sapevano, ma hanno capito Matias Jesus Almeyda, hanno creduto al suo lavoro. Almeno loro. E sono stati giustamente premiati. Come dice uno dei maestri dell’ex numero 5 dell’Albiceleste, Marcelo Bielsa, “gli uomini crescono, combattono, si sforzano e di tanto in tanto, de vez en cuando, vincono. Muy de vez en cuando…”. In Grecia sta diventando routine la vittoria, ma i trofei c’entrano fino a un certo punto. Lo spirito di Matias è già parte di loro.
Autore: Red. TuttoAtalanta.com
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