Mario Gamba, con il suo ristorante Acquarello a Monaco di Baviera da anni ai vertici della cucina internazionale (e con un secondo Acquarello a Città del Messico, tra i migliori ristoranti italiani del Centro e Sud America), non è soltanto uno degli chef italiani più apprezzati nel mondo. Originario di Almenno San Salvatore, è un bergamasco orgoglioso, legato alla sua terra e, soprattutto, all’Atalanta, simbolo e identità collettiva. In quest’intervista esclusiva a TuttoAtalanta.com, Gamba – che ha lavorato con Gualtiero Marchesi, Carlo Cracco e Davide Oldani, e ha cucinato per Robert De Niro, Bon Jovi, Madonna, Rolling Stones, Simple Minds e Simply Red – racconta la sua visione sul momento delicato del club nerazzurro, sul ruolo della dirigenza, sull’eredità di Gasperini e sull’importanza dello spirito «mola mia».
Mario, dove nasce il suo legame con l’Atalanta?
«Nei ricordi d’infanzia - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -, tra i profumi e i colori di una terra che mi ha insegnato il valore del lavoro silenzioso, della disciplina e dell’umiltà. La laboriosità bergamasca è un modo di vivere fatto di rispetto, inclusione e determinazione. Ogni stagione aveva un suo profumo: la terra appena lavorata, l’aria fresca delle valli. In quei gesti si percepiva una religiosità silenziosa, fatta di esempi. Il carattere bergamasco – come l’Atalanta – può sembrare riservato, ma è ascolto, riflessione, capacità di trasformare le divergenze in crescita. È un carattere che non molla: trova nella fatica la forza e nella comunità l’orgoglio. Lo stesso spirito che vedi ogni volta che l’Atalanta scende in campo».
E vive soprattutto nei tifosi?
«Sì, nel popolo nerazzurro che riempie lo stadio. Sono la voce di una città, la spinta nei momenti difficili e la gioia in quelli di gloria. Dopo la tragedia della pandemia, la squadra ha portato speranza nelle notti di Champions; nel 2021 ha raggiunto la finale di Coppa Italia. Atalanta e tifosi sono l’immagine di Bergamo: comunità unita, forte, coraggiosa, che si rialza senza dimenticare radici e valori».
Ha visto la partita con il Paris Saint-Germain?
«Alla lettura della formazione ho avuto molte perplessità, quasi mi è passata la voglia di guardarla. Non ce l’ho con l’allenatore: ha colto una grande occasione. Per me la responsabilità è dell’azionista di maggioranza, che decide senza metterci la faccia, a differenza di Antonio Percassi, che per me resta l’Atalanta ed è il più dispiaciuto. Non ho letto una dichiarazione di Pagliuca, eppure in pochi mesi si è buttato via ciò che si era costruito in nove anni. Non è stato un ciclo, è stata un’epoca che poteva continuare con Gasperini: carattere spigoloso, sì, ma grande conoscitore di calcio, capace di entrare nella testa dei giocatori e dar loro intensità – il nostro “mola mia”. Perché tanti che qui hanno fatto benissimo altrove non si sono ripetuti? La risposta è l’allenatore. Con Gasp potevamo andare avanti altri dieci anni. Siamo stati stabilmente tra le prime, cinque partecipazioni in Champions, una Coppa europea vinta, quattro finali di Coppa Italia: intensità, gioco, conoscenza. Nessuna italiana giocava come l’Atalanta: sembrava una big inglese».
Non crede che l’Atalanta possa comunque fare bene quest’anno?
«Stiamo vedendo i risultati di questa scelta. Un allenatore che mi ha sempre lasciato perplesso e che, per me, ha ridimensionato le ambizioni. I giocatori importanti vanno altrove e noi abbiamo sperperato un capitale culturale, sociale ed economico costruito in nove anni in due-tre partite».
C’è delusione, quindi?
«Molta. Penso ai tanti tifosi atalantini nel mondo. Qui a Monaco ci sono tedeschi che tifano Atalanta e me lo raccontano con orgoglio».
La percezione dell’Atalanta all’estero è cambiata?
«Sì: risultati, giocatori, stadio bellissimo. Tutto è iniziato con le immagini di Bergamo durante il Covid. È cresciuta la visibilità della città e del territorio – anche grazie all’aeroporto di Orio. All’estero apprezzano la nostra storia e l’identità bergamasca. Ma tutto questo orgoglio può svanire se “un americano” decide a Bergamo senza spiegare?».
Si dice possa mediare nel caso Lookman.
«Per me la differenza la può fare solo Antonio Percassi. Lookman fa i capricci, ma servirebbe un intervento UEFA per ridimensionare il ruolo dei procuratori».
È sempre stato tifoso della Dea?
«Il sangue nerazzurro scorre da sempre. Andavo sempre allo stadio. L’ultima partita è stata a Dortmund, con il capitano Micky Stevic, ospite suo e del presidente del BVB, cliente del mio ristorante. Era l’inizio della crescita dell’Atalanta e loro la ammiravano. Dobbiamo dire grazie a Percassi: l’Atalanta ha portato attrattività a Bergamo».
Quest’anno l’Atalanta non può puntare in alto?
«No. Temo subentri l’orgoglio e non si cambi nulla, andando avanti finché tutto crollerà e tra un anno servirà rifondare. Non do la colpa all’allenatore – che non avrei preso: c’erano Motta, Sarri, Palladino. Forse troppo esigenti? Juric non può dire nulla, è una fortuna piovuta. Fa giocare Maldini in Champions, che è ancora in crescita; manda in campo Bernasconi, tremante per l’emozione; rischia di bruciare Ahanor. Mancavano Ederson e Scamacca e lasci in panchina l’unico centravanti. Mi pare si sia abbassato il livello: manca gioco, intensità. Al di là del valore del PSG, l’Atalanta è sembrata una squadretta da torneo. È in gioco una struttura sociale e culturale del territorio, dilapidata in pochi mesi».
Un giocatore che le è piaciuto?
«Scalvini, Djimsiti, Kolasinac, Ederson, De Roon – che rappresenta Bergamo – e Zappacosta, che però ha giocato poco. Mi piacciono i “rimasti” e alcuni nuovi, anche se il livello si è abbassato: poi bisogna saperli far crescere, e con tutto il rispetto per Juric non vedo le capacità per alzarne l’asticella».
L’avvio era sulla carta abbordabile…
«Abbiamo giocato con le ultime e abbiamo fatto 5 punti, due dei quali sudatissimi; alla prima partita importante abbiamo perso 4-0. Senza il rigore parato era 5-0, col gol non annullato 6-0, senza le parate di Carnesecchi anche 9-0».
Col Torino cosa si aspetta? Una reazione?
«Non è questione di reazione: queste cose si programmano. Se si prosegue così si arriverà a cambiare assetto societario, e sarebbe gravissimo: se l’Atalanta non è più dei bergamaschi perde identità. Mi aspetto che il socio di maggioranza parli e spieghi perché è stato mandato via Gasperini. È il momento di dare spiegazioni al popolo nerazzurro, soprattutto a chi segue sempre la squadra».
Dalle parole di Mario Gamba emerge non solo l’amarezza per un’epoca che pare essersi interrotta bruscamente, ma anche un appello a non disperdere ciò che è stato costruito con fatica, sacrificio e visione. Per lo chef, l’Atalanta non è solo calcio: è un motore identitario e sociale che ha rappresentato Bergamo nel mondo. Ora, dice, servono trasparenza dalla proprietà e il coraggio di tornare a un progetto centrato su competenza, passione e legame con la città. Senza questi valori, l’Atalanta rischia di perdere non solo le partite, ma anche sé stessa.
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