Marten de Roon, da dieci anni a Bergamo e ormai autentico simbolo della squadra nerazzurra, ha ripercorso in un’intensa intervista concessa a Cronache di Spogliatoio il suo percorso umano e sportivo all’Atalanta. Tra aneddoti personali, momenti indimenticabili e retroscena sul rapporto con la città e la società, il centrocampista olandese ha svelato cosa significhi realmente essere un leader silenzioso e amatissimo dai tifosi bergamaschi. Ecco quanto evidenziato da TuttoAtalanta.com
Marten, sono passati dieci anni dal tuo arrivo a Bergamo. Ti senti ormai più italiano che olandese?
«Assolutamente sì. Le mie figlie sono cresciute qui, frequentano scuole italiane, ormai sono più bergamasche che olandesi. Volevamo integrarle pienamente, perché altrimenti saremmo rimasti sempre stranieri. La piccola addirittura parla dialetto bergamasco meglio di me!»
Qual è stato il tuo primo impatto con Bergamo?
«La prima settimana fu davvero complicata. Non conoscevo la lingua, ero nel ritiro di Clusone e chiamai mia moglie dicendole: “Ma dove siamo finiti? Non so se ce la faccio...”. Ora, invece, non ci vediamo da nessun’altra parte: Bergamo è diventata casa nostra».
Hai appena salutato Gasperini dopo un ciclo straordinario. Come vivi questo cambiamento?
«Un momento delicato e un po' triste. Gasperini ha dato tutto, ha costruito qualcosa di unico. Vedere andar via lui e tanti compagni, come Toloi, è difficile. Capisci che anche il tuo tempo si avvicina. Però sono ottimista: la società è solida e ha idee chiare per il futuro».
Cosa significa giocare per l’Atalanta dei Percassi?
«Antonio Percassi è il cuore pulsante della società: imprenditore di successo ma soprattutto un tifoso appassionato. Non lo vediamo spesso a Zingonia, ma quando c’è, la sua presenza è forte ed emozionale. Luca invece è il riferimento quotidiano: attento, sempre vicino ai giocatori. L'Atalanta è una famiglia più che una semplice squadra».
Sei ormai un leader riconosciuto nello spogliatoio. Cosa conta davvero in quel contesto?
«Il rispetto prima di tutto. Qui in Italia il rispetto è fondamentale e immediato, più che altrove. Credo molto anche nel dare l’esempio: se chi guida il gruppo si impegna sempre al massimo, anche gli altri lo seguiranno. E questo stile l’ho imparato anche grazie a Marco Van Basten, che mi nominò capitano all’Heerenveen».
A proposito di Van Basten, com’è stato il vostro rapporto?
«Mi emozionò moltissimo quando mi diede la fascia di capitano, perché lo rispettavo enormemente. Con lui discutevo molto di calcio, cercava di capire anche il mio punto di vista. Quando mi ha regalato la sua autobiografia mi ha scritto una dedica bellissima: "Non immaginavo potessi raggiungere certi livelli, ora sono orgoglioso di te. Non fare troppo male al Milan!"».
Sei famoso per il tuo legame con Bergamo e la sua gente. Come lo vivi quotidianamente?
«È fantastico sentire l’affetto della città. Quando mi sono infortunato prima della finale di Europa League ho ricevuto una quantità incredibile di messaggi. Uno in particolare mi colpì moltissimo: un tifoso mi ringraziò per aver fatto innamorare nuovamente i suoi figli del calcio e dell’Atalanta. Queste cose valgono più di qualsiasi trofeo».
Come hai vissuto emotivamente quel momento in cui hai capito di non poter giocare la finale?
«È stata durissima. Ricordo benissimo quel dolore fisico e mentale. A casa, il giorno dopo, io e mia moglie piangemmo a lungo per la delusione. Avevo lavorato per anni per arrivare a quella partita. Tuttora, pur avendo vinto, sento che manca qualcosa, quel tassello di non essere stato in campo. È stato uno dei momenti più difficili della mia vita. Ho lavorato per anni, sacrificando tutto, per arrivare a quella partita. L’Europa League rappresentava la vetta della mia carriera, un obiettivo che avevo conquistato con fatica e dedizione. Non giocarla è stato devastante, ho pianto tanto insieme a mia moglie. Mi sono sentito privato di qualcosa che meritavo davvero, non per sminuire i compagni, ma perché quella partita la sentivo mia. Ho affrontato Liverpool e Marsiglia adattandomi a ruoli diversi, anche in difesa, pur di aiutare la squadra: era il mio sogno e quella finale sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Abbiamo vinto, è vero, ma mi resta sempre una ferita aperta per non essere stato in campo».
In quei giorni hai ricevuto tanto sostegno. C'è un messaggio in particolare che ti ha commosso?
«Sì, ce n'è stato uno che mi ha toccato profondamente. Un tifoso bergamasco mi ha scritto che grazie a me aveva riportato i suoi figli allo stadio dopo molto tempo. Mi disse che ero diventato un esempio per loro, perché incarnavo i valori di sacrificio e passione per l’Atalanta. Queste parole mi hanno fatto capire quanto fosse speciale il legame creato con la città e i tifosi».
A proposito di legami speciali, cosa significa per te lo spogliatoio?
«Lo spogliatoio è tutto, un luogo sacro in cui vivi emozioni fortissime e condividi momenti belli e brutti con i tuoi compagni. Non dimenticherò mai, ad esempio, quando ho seguito Josip Ilicic negli spogliatoi dopo un allenamento: lui era devastato, ha iniziato a piangere e mi ha abbracciato. È stato struggente, una scena che mi porterò dentro per sempre».
Ci sono anche momenti divertenti nello spogliatoio, vero?
«Assolutamente sì. Una scena indimenticabile riguarda Mario Pasalic e Charles De Ketelaere. Charles gli regalò una maglia della Dinamo Zagabria con il suo nome. Mario è di Spalato e non sopporta la Dinamo: vedere la sua reazione è stato esilarante. Questo rende speciale lo spogliatoio, quel mix di dramma, ironia e amicizia che pochi ambienti possono offrire».
Quali sono i tuoi migliori amici nel calcio?
«Qui a Bergamo ho avuto la fortuna di vivere tanti anni con un gruppo straordinario. Con Freuler, Djimsiti, Hateboer e Gosens ho creato un legame che va ben oltre il campo. Sono diventati amici veri, persone con cui condivido momenti importanti anche lontano dal calcio, e questo mi ha aiutato tantissimo a crescere come uomo e calciatore».
Parli spesso dei giovani. C'è qualcuno in particolare che cerchi di aiutare?
«Sì, ultimamente ho parlato molto con Palestra. È un ragazzo di talento con grandi potenzialità, e cerco di capire dove posso dargli un consiglio utile per aiutarlo a crescere. Allo stesso tempo, queste interazioni sono preziose anche per me, perché mi fanno capire cosa potrebbe aspettarmi in futuro, magari quando smetterò di giocare e inizierò un'altra carriera».
Hai citato spesso il tuo interesse per altri sport. Quali segui maggiormente?
«Sono un grande appassionato di tennis, Federer è stato il mio idolo assoluto. Ora seguo molto Sinner, soprattutto vivendo in Italia. Mi piace anche il ciclismo: ammiro enormemente chi pratica sport individuali perché non puoi mai nasconderti dietro nessuno, tutto dipende solo da te».
In generale, come vedi il rapporto tra calciatori e media oggi?
«Credo serva più apertura da parte di entrambi. Ai media consiglio di spiegare meglio certi giudizi negativi per farli comprendere davvero ai tifosi. Ai calciatori invece dico: apritevi di più, mostrate anche i momenti difficili. Questo aiuterebbe molto a rendere il calcio meno distante dalla gente».
Sei stato spesso definito “capitano silenzioso”. Ti riconosci in questa descrizione?
«In parte sì. Sono una persona che osserva tanto, cerco di capire quando è il momento giusto per parlare o dare un consiglio. Mi interessa aiutare i compagni più giovani o chi attraversa un momento difficile. Preferisco essere un leader positivo, che incoraggia più che criticare aspramente».
Quale futuro immagini per te e per l’Atalanta?
«Finché sarò utile, continuerò a dare tutto per questa maglia. È dura vedere tanti compagni storici andare via, ma il calcio è così: cambiano i protagonisti, ma l’identità dell’Atalanta rimarrà forte grazie alla società. E quando sarà il momento di lasciare, spero di lasciare un segno positivo e indelebile».
Marten de Roon, leader discreto, uomo sensibile e capitano instancabile. Dieci anni dopo, il cuore è più che mai bergamasco.
© Riproduzione riservata
Autore: Redazione TuttoAtalanta.com / Twitter: @tuttoatalanta
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