Vinicio Espinal non è solo un ex calciatore: è un volto che racconta una storia di sacrifici, famiglia, sogni e radici. Arrivato in Italia da bambino non per inseguire un pallone ma una vita nuova, ha scoperto nel calcio prima un gioco, poi una passione e infine una casa. L’Atalanta lo ha formato, messo alla prova e gli ha insegnato che il talento non basta: servono fame, testa e cuore. Oggi, dopo una carriera da professionista, l’ex centrocampista classe 1982 – in nerazzurro dal 1999 al 2003 – allena la Giana Erminio in Serie C. Una sfida ripartita dal basso, con l’umiltà di chi, da ragazzo, si segnava tutto su un foglietto per capire cosa volesse dire davvero “giocare sul serio”.
Vinicio, sfatiamo un mito: come sei arrivato all’Atalanta?
«In tanti credono che sia venuto a Bergamo da Santo Domingo per giocare a calcio, ma ero già in Italia - precisa e confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. Ci sono arrivato a otto anni con mio fratello gemello José e mia mamma. Prima vivevamo nella Repubblica Dominicana con nonna e zia: donne sole, emancipate. Alla morte di nonna, ognuno prese la propria strada: una zia a New York, noi in Italia da un’altra zia. Studiavo, alternavo calcio e basket: il pallone era solo un divertimento. A Taormina giocavo in squadre di età diverse e in più ruoli: portiere, difensore, centrocampista. Si stava bene, ma c’erano poche opportunità di lavoro; così mamma decise di salire al Nord. In periferia di Milano giocavamo nell’oratorio di Cornaredo, dove andavamo a scuola».
L’Atalanta ti ha notato lì?
«In parte. Abituati a confrontarci con i più grandi, per la prima volta eravamo coi pari età e stavamo facendo bene. A una gara venne Perico: diluviava, non avevamo scarpe adatte e non se ne fece nulla. A fine stagione ci mandarono a una società affiliata all’Atalanta, a Bollate: andò molto bene. C’era Antonello Sorte, a cui ho voluto molto bene. In un torneo battemmo proprio l’Atalanta: per noi fu una vetrina. Fummo alle fasi nazionali alla Borghesiana e poi a Monaco per le europee: passai tutti i turni anche contro professionisti. L’Atalanta ci ripensò, ci fece provare e ci prese per l’anno dopo. Io sono un prodotto del calcio italiano: prima non ci giocavo nemmeno».
Quanti anni avevi quando, con tuo fratello, sei arrivato a Zingonia?
«Tredici/ quattordici. Allievi B, con Inacio Pià e Adrian Madaschi. C’era scetticismo: nei vivai professionistici si arriva prima, e io avevo poche basi. Ho dovuto lavorare duro per colmare il gap. Fino ad allora ero un “giocatore di strada”: vedere un centro tutto per il calcio impressiona. Scalai veloce, ma i primi sei mesi furono duri: gli altri erano abituati a un’impostazione rigida, io no. Ho incanalato la mia personalità “caraibica” e sono cresciuto nel lavoro. In Primavera parlavano “calcio dei grandi”: tattica collettiva, termini che non conoscevo. Me li segnavo su un foglietto, andavo in bagno e ripassavo. Mi mancava la tattica individuale e il vocabolario del campo. Da Vavassori non capivo alcuni termini: avevo fame di imparare. Quando ho perso un po’ quella fame, ho avuto degli stop. L’Atalanta mi ha cambiato lì: mi ha dato una fame furiosa di capire e di seguire un percorso. Merito di Fusi, Favini, Perico, Vavassori, Finardi: hanno inciso sulla mia mentalità prima ancora che sulla tattica».
Sono loro le persone che hanno inciso di più?
«Fusi ha lavorato sulla mia autostima: fu il primo allenatore a credere nel mio potenziale. Perico, che inizialmente pensava non potessi fare il calciatore, ebbe l’umiltà di rivedere il giudizio. Vavassori credette in me in prima squadra: se ho giocato in A, è anche merito suo. Quando lo ringraziai, mi rispose che non mi aveva dato nulla più di quel che meritassi, anzi forse meno: parole che mi hanno segnato. Finardi mi fece crescere nella consapevolezza: dopo una sostituzione con il Napoli, esplosi di frustrazione; mi fece capire che non deve mai prevalere. Favini parlò con me con fermezza gentile: non alzava la voce, ma ti faceva riflettere. Il giorno dopo mi rimisero in campo contro l’Inter di Pandev e Martins: perdetti, ma imparai una lezione enorme».
Quando hai capito che all’Atalanta ci potevi stare?
«In una partita degli Allievi Nazionali. Giocai molto bene, arrivarono i complimenti e capii di poter ambire a qualcosa di più. Anche Vavassori, che guardava dalla finestra dello spogliatoio, scese e mi fece i complimenti: mi caricò tantissimo».
Ricordi l’esordio in prima squadra (22 aprile 2001, Perugia–Atalanta 2–2)?
«Le ricordo tutte, figuriamoci quella. Era nell’aria: in Primavera andava bene, in prima squadra c’erano infortuni. A Perugia Vavassori mi diede la maglia: “Tocca a te. Vai”. Non era uno di molte parole. In allenamento mi mandava a prendere le sigarette nel mezzo della seduta: mi imbarazzava, ma lo facevo. Mi trattava come un nipote. Anni dopo, nel tunnel di Marassi prima di un Genoa–Monza da brividi mi chiese come stessimo io e mamma e se ero riuscito a comprarle casa. Si giocava un campionato e pensava a me: questo era l’ambiente Atalanta. Una famiglia che ti educa e ti fa sentire a casa».
Giana Erminio, prima esperienza da tecnico tra i professionisti: come trasmetti la tua idea di calcio?
«Al di là delle categorie, cerco di migliorare il singolo: ragionamento, tattica individuale, consapevolezza. Alleno per loro: il risultato è conseguenza del progresso di tutti. Voglio un rapporto leale: dico sempre la verità del momento e spiego il perché delle scelte. Giochiamo un calcio di relazioni e interscambi, che coinvolge tutti. Sono grato dell’opportunità e prometto il massimo, ogni giorno».
José: percorsi paralleli, caratteri diversi. Quanto conta averlo accanto oggi nello staff?
«Da gemelli cerchi l’identità e ti allontani; da grandi capisci che insieme sei più forte. Siamo diversi: lui sembra guascone, ma è sensibile e acuto. È il mio equilibratore: mi aiuta a leggere le cose con lucidità quando rischio di farmi condizionare dall’emotività».
Come hai iniziato ad allenare?
«Quasi per caso. Ero indeciso se continuare da pro o scendere vicino casa. Mi allenavo nel campo del paese, un amico (Fabio Bertuletti) cercava un allenatore: ho dato una mano e mi sono innamorato del ruolo».
Hai affrontato l’Atalanta Under 23 in Coppa Italia: che impressione ti ha fatto?
«Percorso bellissimo. Magari ora non benissimo perché ha cambiato tanto, ma il progetto è giusto: i ragazzi crescono di più con questo tipo di partite che non nelle giovanili. Ha individualità importanti: con noi ha deciso gente di qualità».
Chi può arrivare nel giro della prima squadra?
«Non per forza all’Atalanta. Penso a Palestra, andato a Cagliari. L’importante è che il vivaio produca professionisti: l’Atalanta oggi ha un altro spessore, l’accesso alla prima squadra è più selettivo, ma i frutti non si perdono».
Della prima squadra cosa pensi?
«Dire che con Juric si prosegue il lavoro di Gasperini è riduttivo: ci sono idee simili, ma ogni tecnico porta la sua. Serve adattamento. La squadra sta facendo il suo, mancano pedine importanti, serve tempo. Ricordo il primo anno di Gasp: dopo 6–7 partite nessuno voleva tenerlo, poi è nata una storia bellissima. Juric ha potenziale e sta mettendo mattoni: meno spregiudicata? Ci sta. Sta creando fiducia: arriverà anche un gioco più brillante. Sostituire un allenatore che ha cambiato il calcio non è facile».
Champions, Club Brugge: cosa ti aspetti?
«Una reazione. Col PSG è stata brutta: da ex calciatore vuoi cancellarla subito. Il calcio è bello perché ogni settimana c’è un esame».
E l’impegno con il Como?
«Ha potenziale economico e tecnico, Fàbregas ha idee chiare. Danno un bel tono internazionale alla B. Palleggiano bene: la chiave è l’uomo contro uomo di Juric. Se l’Atalanta riesce a asfissiare l’uscita palla, ne trae vantaggio; se Nico Paz e gli altri escono puliti dalla pressione, diventa complicata».
La storia di Vinicio Espinal parla a chi nel calcio – e nella vita – non ha avuto scorciatoie: passaggi complicati, mani tese, maestri che ti fanno crescere, un fratello con cui dividere tutto. Oggi, da tecnico, prova a restituire qualcosa a quel mondo: non solo schemi, ma mentalità, disciplina, identità. E lo fa con lo stesso spirito di sempre: sincerità, passione e quella fame che – dice lui – non deve mai passare. Perché il calcio nasce lì: quando impari a capire chi sei, prima ancora di capire dove vuoi arrivare.
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