Stefano Colantuono prima di Gasperini. Un ciclo lungo, intenso, a tratti burrascoso, ma fondamentale: in quegli anni l’Atalanta ha ritrovato la propria dimensione in Serie A. Con lui in panchina la Dea ha costruito un’identità: squadra solida, concreta, capace di tornare stabilmente nel massimo campionato e di farlo con una mentalità da protagonista. E con Bergamo si è creato un rapporto di reciproca stima: Colantuono ha incarnato lo spirito della città – grinta e concretezza – che i tifosi le hanno sempre riconosciuto. Sette anni in nerazzurro: dal 2005 al 2007 (vittoria del campionato cadetto e qualificazione in Intertoto) e dal 2010 a marzo 2015 (un’altra B vinta e quattro stagioni consecutive in A). Oltre a salvezze e promozioni, soprattutto cultura del lavoro e appartenenza: le basi di ciò che sarebbe venuto dopo.
Mister, lei come e ancor prima di Gasperini ha scritto la storia dell’Atalanta.
«Gasperini ha sicuramente fatto cose straordinarie - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -, anche con il raggiungimento dell’Europa League, ma se penso ai miei anni all’Atalanta, credo di poter dire che abbiamo raggiunto il massimo di quello che potevamo ottenere».
Anche i mezzi erano diversi.
«Ho vissuto l’Atalanta con due proprietà diverse: prima i Ruggeri, poi i Percassi. Con Ruggeri abbiamo fatto due anni straordinari: vinto la B con un mese d’anticipo e, l’anno dopo, ottavi in A e qualificazione in Intertoto. A fine stagione me ne andai e la società decise di non parteciparvi. Sono tornato nel 2010: Percassi aveva rilevato l’Atalanta, appena retrocessa. Il presidente voleva risalire subito per evitare ulteriori problemi e centrammo l’obiettivo con largo anticipo. L’anno successivo, in A, partimmo con sei turni di penalizzazione per il calcioscommesse, ma conquistammo 52 punti: il massimo mai raggiunto dalla squadra nella massima serie».
Erano anni di saliscendi.
«Si passava dalla B alla A e, dopo 2-3 anni, si tornava in B. Percassi, da persona lungimirante e molto attenta, mi disse che dovevamo consolidarci in A per fare il salto di qualità, altrimenti avremmo ricominciato ogni volta da zero. E così fu: dei miei cinque anni con Percassi, quattro sono stati nella massima serie».
Nella stagione 2011/12 addirittura da -6. Eppure lei la ricorda come un’annata memorabile.
«Stagione importantissima: partire da neopromossa con sei punti in meno, farne 52 e salvarsi significa disputare un campionato straordinario. Rapportato a quell’Atalanta, dove non mancarono le difficoltà».
Anche perché siete partiti penalizzati per due stagioni.
«Alla fine quei punti di penalizzazione erano diventati quasi uno stimolo a far meglio. Ho avuto la fortuna di allenare un gruppo straordinario e di avere vicino una proprietà, i Percassi, che ci è stata di grande aiuto anche nei pochi momenti difficili, senza mai perdere la testa. Famiglia equilibrata: Luca, in particolare, era sempre vicino alla squadra. I sette anni all’Atalanta sono stati straordinari, pur non essendo quella squadra paragonabile a quella di oggi – che ha dimensioni europee e compete con club blasonati. La nostra era un’altra storia, ma credo che il nostro lavoro abbia tracciato la strada».
I suoi ex giocatori la ringraziano sempre. Cosa aveva “mister Colantuono” di speciale?
«Sono molto legato a Bergamo: quando torno è sempre una gioia. Sono rimasto sette anni, quasi un terzo della mia vita professionale, e sono tuttora legato a quei ragazzi. Ho sempre avuto schiettezza nel rapporto, e – vivendo anni positivi – non mancava il buonumore. Ho un bel ricordo di tutti, a partire da Gianpaolo Bellini, mio capitano per sette anni (tranne una parentesi con Doni). Insieme abbiamo superato anche momenti di difficoltà. Ho avuto giocatori talentuosi, di grande mano: oltre a Doni e Bellini, lo zoccolo duro – Ariatti, Denis, Loria, Rivalta, Calderoni, Zampagna, Ventola, Bombardini. Non escluderei nessuno: hanno sempre dato contributo, calandosi nella mentalità atalantina. E cito Scaloni: alla Lazio non giocava con continuità, ma per noi fu uomo spogliatoio fondamentale».
Mister, dopo le prime due stagioni lasciò Bergamo per Palermo. Se n’è mai pentito?
«Avevo avuto un piccolo problema con Ivan Ruggeri e a fine campionato ci confrontammo. Qualcuno contribuì a creare tensioni, ma l’errore fu mio. In quell’occasione ho sbagliato e me ne pento. Palermo è una piazza straordinaria e poteva rappresentare il salto di qualità: disputammo i preliminari di Europa League. Però dovevo essere più riflessivo e proseguire con l’Atalanta. Me ne accorsi e, quando Percassi mi richiamò, tornai di corsa».
Un ritorno che, inizialmente, non tutti presero bene.
«Sì, ebbi qualche problema con alcuni tifosi che non avevano digerito la mia scelta: durante la partita picchiavano sul vetro dietro la panchina per tutto il tempo. Poi hanno capito».
Alla festa per i 118 anni dell’Atalanta il suo nome è stato acclamato.
«Mi ha fatto enorme piacere. A Bergamo ho lasciato una parte del mio cuore. Qui è nato anche mio figlio, che ha proprio il DNA bergamasco: glielo dico sempre. Bergamo farà sempre parte della mia vita».
C’è rammarico per com’è finita?
«No. Probabilmente, all’epoca, la scelta dei Percassi di interrompere anzitempo il rapporto fu quella giusta, più per un discorso tecnico. Nell’ultimo anno la squadra ha faticato un po’, ma si sarebbe salvata. Poi il mio nome, a torto, finì nel calcioscommesse, vicenda dalla quale sono uscito pulitissimo: non ci fu nemmeno bisogno di processo. È possibile che, a livello umorale, l’ambiente si fosse un po’ destabilizzato e, insieme alla proprietà, decidemmo di cambiare e affidare la panchina a Edy Reja, allenatore con la testa sgombra per raggiungere la salvezza con serenità».
Dopo Bergamo, approda all’Udinese. È vero che non si è mai creata la giusta alchimia?
«L’Udinese è una società straordinaria, con una proprietà forte. Per tanti anni ha fatto benissimo: poteva essere considerata l’Atalanta di oggi. Ma quando arrivai io serviva un ricambio generazionale: un momento di rottura col passato. Partimmo anche bene – vittoria a Torino con la Juventus – e al giro di boa eravamo in linea con gli obiettivi. Nel ritorno una serie di prove non brillantissime e la proprietà decise di cambiare. Non fu un problema mio: era finito il ciclo di quella squadra da Champions, e l’ho pagato».
Dell’Udinese di oggi cosa pensa?
«Insieme all’Atalanta è una delle società più organizzate del nostro calcio. Dirigenti bravi, scouting eccellente, risultati memorabili anche contro squadre fortissime. Mi pare che, dopo qualche anno di assestamento, abbiano ripreso un buon percorso: tecnico valido, giocatori all’altezza. Stanno facendo un buon campionato: con l’Atalanta sarà una bella partita».
A cosa deve stare attenta l’Atalanta?
«Con la Juventus loro non sono stati brillantissimi, ma hanno iniziato bene la stagione. L’Atalanta parte con un piccolo vantaggio: è da anni tra le prime 3-4 del campionato. I favori del pronostico sono leggermente a suo favore, ma per vincere a Udine serve una partita importante. In Friuli ci sono polemiche per la sconfitta con la Juve (che ci sta): avranno stimoli e attenzione. L’Atalanta non deve temere nessuno, ma deve fare la sua partita; altrimenti rischia».
Anche perché l’Atalanta ora ha quasi l’obbligo di vincere per scrollarsi la “pareggite”.
«Noi (2006) dovevamo vincere il campionato; non credo che oggi l’Atalanta sia partita per vincerlo. L’obiettivo è qualificarsi in Champions. Pareggia molto, ma non perde. Per stare in alto servono vittorie, è chiaro; ora ha due partite abbordabili e può rimettere a posto la classifica. Non sarei pessimista: quando cambi allenatore dopo nove anni, chiunque incontri difficoltà. Juric deve lavorare con calma: ha attenuanti (tanti infortuni, soprattutto all’avvio). Ci vuole tranquillità. Queste due gare possono rilanciare l’Atalanta. Nove partite sono poche per un giudizio definitivo».
Vista la rosa, può lottare ancora per l’Europa?
«Per me farà un campionato di vertice: questo è indiscutibile. Di cosa parliamo? Dei pareggi. Col Milan è stata sfortunata: gara subito in salita, quando rincorri sprechi energie, ma la prestazione c’è stata contro una squadra importante. Ha recuperato Lookman, ma mancano ancora dei giocatori. Aspettiamo: farà il campionato a cui ci ha abituati».
Da allenatore: quando si creano tante palle-gol senza segnare è solo questione di errori individuali?
«Il calcio vive di momenti. Puoi essere la miglior difesa e poi per 2-3 gare prendere gol “inspiegabili”. Vale anche per l’Atalanta: in questi anni ha fatto tanti gol e adesso fatica. Non penso che in otto partite i giocatori si siano scordati come si segna. Serve pazienza: l’Atalanta tornerà a fare gol, perché ce l’ha nel DNA».
Chi vede favorito per questo campionato?
«Chi l’ha vinto ha un vantaggio: Inter e Napoli oggi se lo giocheranno, ma non le vedo irraggiungibili. A inseguire le solite note: Milan e, se si mette in moto con qualche vittoria, anche l’Atalanta. Perché no?».
Colantuono oggi è in attesa di una panchina?
«Se ci fosse l’occasione, assolutamente. Ho ripreso dopo un anno e mezzo di stop forzato per un problema al ginocchio. Avevo un contratto, ma ho preferito restare nel calcio dedicandomi ad altro: la Salernitana mi ha proposto il settore giovanile ed è stato formante. In fondo cambia poco: il calcio è sempre lo stesso e io voglio continuare ad allenare».
Il ciclo Colantuono è stato un punto di svolta: una sorta di anno zero del nuovo corso atalantino. Ha segnato il passaggio dall’Atalanta che lottava per non retrocedere a quella che ha imparato a restare, crescere, sognare. Se oggi la Dea è sinonimo di progetto e continuità, molto lo deve a quella fase in cui Stefano Colantuono, con pragmatismo e visione, ha restituito identità e orgoglio a Bergamo. Il legame con città e tifoseria è rimasto: un rispetto reciproco nato sul campo – tra fatica e passione – che ancora oggi è memoria viva di chi ama l’Atalanta.
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