C’è chi nasce con un cognome importante e lo usa da scudo, e chi sceglie di guadagnarsi ogni metro con il sudore. Gianluca Savoldi, figlio del bomber leggendario Beppe Savoldi, è cresciuto all’Atalanta – voluto proprio da Mino Favini – ma ha scelto di farsi strada nel calcio con il proprio nome: sacrifici, scelte controcorrente e una passione incrollabile. Orgogliosamente bergamasco e profondamente atalantino, dopo aver portato il Renate Primavera a traguardi storici si è preso una pausa. Si racconta in esclusiva, in un lunga e piacevole intervista, a TuttoAtalanta.com.

Gianluca, è vero che fu proprio Mino Favini a volerti fortemente all’Atalanta?
«Io sono un figlio di Zingonia e anche un figlio di Favini, che sì, mi volle fortemente a Zingonia. Era un mio grande estimatore, uno dei più grandi, e alla luce di ciò che ha fatto nella sua vita credo non ci siano dubbi che di calcio ne capisse. Questo mi lusinga molto: avere avuto la sua stima e la sua fiducia mi riempie d’orgoglio. Guardava l’uomo, sapeva valutare l’aspetto tecnico del ragazzo e intuirne il valore. Aveva grande fiuto e sapeva instaurare relazioni meravigliose con i ragazzi, cosa che oggi un po’ manca ad allenatori e responsabili dei settori giovanili. Oltre a scovare talenti, era un conoscitore di calcio e di metodologia come pochi. Una figura che oggi servirebbe tantissimo. Qualche suo allievo c’è e prosegue la sua strada, vedi Giancarlo Centi al Como».

C’è un insegnamento ereditato dal settore giovanile dell’Atalanta che porti sempre con te?
«Tantissimi, anche se a volte mi scontro con un po’ di superficialità. Non è facile trasmettere i valori che lui mi ha insegnato. Primo su tutti: l’attenzione per la testa dei giocatori. Devi entrare nella loro testa se vuoi insegnare anche solo come si stoppa un pallone. Un ragazzo sceglie la sua guida se la trova credibile, se si crea una relazione, se si sente capito. Bisogna andare in sintonia per tirare fuori il meglio. Poi mentalità del lavoro, senso del dovere, certezza che senza sacrifici non si raggiunge nulla. Non sono cose scontate. Qualcuno mi chiedeva perché pretendessi determinate cose in campo, dicendo che esageravo; alla fine mi è stato riconosciuto di aver portato professionalità. Dentro di me c’è un bergamasco orgoglioso delle sue radici: un figlio di Zingonia che incarna i valori della propria terra».

La tua è un’eredità importante. Hai definito tuo papà un eroe. Hai mai sentito il peso del confronto? Cosa hai voluto mantenere e in cosa ti sei distinto?
«Un compagno mi chiamava “Obelix”, riferendosi a un macigno: diceva che andavo in giro con quel peso perché per tutti il paragone con mio padre era inevitabile. Io non ho mai provato a paragonarmi a lui: sarebbe stato impossibile. Ho cercato di dimostrare a me stesso, a lui e agli altri di avere un mio valore a prescindere dal cognome, che è ingombrante ma di cui vado fiero. Mio padre mi ha insegnato l’umiltà. La sua era una famiglia modesta: nonno ferroviere, nonna operaia, da Gorlago alla Malpensata grazie alla ferrovia. I valori trasmessi sono quelli: piedi per terra e valore alle cose semplici».

Tuo padre non ha mai condizionato la tua carriera; è vero però che discuteste quando lasciasti l’Atalanta per Cecina, mentre lui voleva insistessi per il ritiro coi nerazzurri?
«Ero sotto contratto con l’Atalanta, ma non convocato per il ritiro perché destinato al prestito. Probabilmente volevano spingermi ad accettare in fretta la soluzione. Io ero indeciso e papà insisteva per far valere il contratto e, con un telegramma – allora si usavano quelli –, chiedere la convocazione in prima squadra: il mister mi avrebbe valutato e sarebbe stata una vetrina. Io, orgoglioso quanto lui, rifiutai: se non mi volevano, perché andarci? Fu la nostra prima grande discussione e, per dispetto, scelsi una squadra lontana da casa invece dell’Ospitaletto proposto dal club. Andai a Cecina, con Bruno Caneo (ex vice di Gasperini) allenatore: mi trovai benissimo e segnai 13 gol. Gli devo molto. Non mi sorprende che sia stato tanti anni con un altro mentore come Gasperini, che ho poi avuto a Crotone nel 2004/05».

S’intravedeva già allora quello che Gasperini sarebbe diventato?
«Non immaginavo sarebbe diventato l’allenatore della squadra della mia città, ma si capiva che aveva stoffa. Idee singolari, ragionava con la sua testa, non seguiva le mode, pur restando umile e curioso. C’era già Domenico Borelli come preparatore atletico: giovane ma tosto. All’epoca si giocava spesso a quattro dietro, ma i principi difensivi erano già quelli del Gasp nerazzurro».

Sei tifoso atalantino da sempre?
«Io nasco in Curva Nord, accanto al Bocia e a Daniele Belotti».

Via Gasperini, è arrivato Juric: in passato lo indicavi come sostituto ideale, in continuità.
«C’è chi dice di rompere col passato e chi di cercare continuità. La via di mezzo non serviva. Per me la strada era tracciata: l’allievo prediletto, che a Verona aveva come ds l’attuale ds nerazzurro Tony D’Amico. Era la scelta più logica. Juric ci metterà del suo, soprattutto nell’approccio, ma l’Atalanta gioca esattamente come prima: non fa qualcosa di diverso, cambierà dettagli. Esempio: sulle palle inattive difende come l’anno scorso. Juric non fa blocco basso, ma non è “sua” scelta: è continuità con Gasperini; altrove ha fatto anche diversamente. Ogni squadra ti stimola soluzioni varie. Juric era la scelta migliore per non disperdere un patrimonio. Diversamente si sarebbe ripartiti da zero. Con D’Amico si trova bene e si chiude il cerchio con Salvatore Bocchetti (Atalanta U23), che era alle giovanili del Verona quando c’era Juric. Si è cercata continuità, e lo trovo positivo. Per me è un grande allenatore, e lo ha dimostrato».

Chi ti conosce dice che sei un grande estimatore di Pasalic…
«Sì: come uomo e come giocatore. È il mio preferito e secondo me è sottovalutato. Straordinario per qualità ed eleganza, anche fuori dal campo. Incarnazione dei valori di Bergamo e dell’Atalanta: maglia sudata e sacrificio. È esemplare e ci ricorda che, mentre chiediamo ai giocatori poche parole e molti fatti, noi siamo diventati troppo chiacchieroni. Dovremmo ricordare da dove veniamo. Senza retorica».

Ci sono troppe aspettative e pressioni attorno alla squadra?
«Si tende a dare tutto per scontato. Va bene essere esigenti: l’Atalanta oggi deve pensare in grande. L’asticella va alzata, altrimenti si muore. Ma in Serie A vince una su 20; in C passano 4 su 60. Nel calcio ci stanno i momenti no. Allenatore e società sbaglieranno: fa parte del gioco. Forse l’anno scorso si poteva davvero raggiungere qualcosa in più – penso a un traguardo storico –, ma vincere è difficile. Servono anche fortuna e incastri. Io ci ho sperato fino all’ultimo. Non dico che dovesse vincere lo scudetto, ma è un peccato non aver alzato quel trofeo in un ciclo così straordinario. Ha però vinto l’Europa League e si è fatta conoscere a livello internazionale. Non dobbiamo accontentarci, ma nemmeno lamentarci. Conosco Antonio Percassi: ai tempi della “banda Prandelli”, tra Allievi e Primavera, veniva a vederci e ci invitava a cena. Non è uno che si accontenta. Ben venga l’ambizione, ma godiamoci ciò che siamo diventati».

Quest’anno dove può arrivare l’Atalanta?
«È presto. L’Inter, dopo il 5-0 al Torino, era lo squadrone da battere, poi ha perso con l’Udinese e si è gridato al disastro. Servono almeno 4-5 partite per giudicare. E smettiamola di scandalizzarci per pareggi o sconfitte con le “piccole”: spesso sono le partite più difficili, lo scorso anno Inter e Napoli hanno perso punti così. Io sono grato per la stagione che stiamo vivendo: ho visto l’Atalanta giocare come sempre, modulo e princìpi di prima. A parte Ruggeri e Retegui (sulla cui cessione concordo) e Lookman che deve rientrare, i giocatori sono gli stessi. Soprattutto è rimasto Ederson. I pareggi in casa si facevano anche l’anno scorso, vedi Venezia. Non è colpa di Juric. Col Pisa ho visto una squadra poco brillante: può starci. Non siamo al top della condizione, ma la proposta resta buona».

Dopo la sosta si riparte con Lecce e Paris. Partiamo dalla Champions.
«Sorteggio complicatissimo: due squadre fortissime. Col Paris è una gara quasi “ingiocabile”: complicatissima, e arriva presto. Loro fino a un mese fa giocavano il Mondiale per Club: squadra giovane, consapevole dei propri mezzi. Sarà delicatissima. Ma noi in questi anni siamo stati bravissimi: le abbiamo affrontate quasi tutte, tranne il Bayern, figurando sempre bene. Sono convinto che sarà così anche stavolta».

E con il Lecce?
«Partita tosta. Oggi, per queste squadre, bastano attenzione, agonismo e organizzazione per fare ancora la differenza. Tolto il 5-0 dell’Inter a Torino, quante altre partite sono state vinte di slancio? Il Napoli – che quest’anno è uno squadrone, quello di un anno fa ma rinforzato – ha segnato al Cagliari al 96’. Guardiamo anche gli altri: è la normalità. Mi sbilancio: secondo me ci sbloccheremo e convinceremo, perché la sosta resetta. L’Atalanta – società, dirigenza, mister, giocatori – ha bisogno di fiducia e supporto: è un passaggio storico. Dopo anni abbiamo cambiato allenatore, e che allenatore. Godiamoci il momento: abbiamo voltato pagina, ma siamo sempre noi».

Dopo quattro anni alla guida della Primavera del Renate ti sei preso una pausa. Il tuo futuro è sempre nel calcio?
«Dopo quattro anni di successi e un percorso bellissimo ho sentito che il mio ciclo era finito. L’obiettivo resta tornare nel calcio: sono certo che questa pausa mi sarà utile».

Oggi, dopo una vita tra campo e panchina, Gianluca Savoldi si prende una pausa. Non un addio: solo un nuovo tempo d’attesa. Il calcio è casa sua. Se si ferma, è per prendere la rincorsa.

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© foto di gentile concessione intervistato
Sezione: Primo Piano / Data: Sab 06 settembre 2025 alle 09:02
Autore: Claudia Esposito
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