Arrivato in Italia ancora ragazzino con una valigia leggera e un sogno enorme, Inacio Pià — oggi Intermediario CBF (Federazione calcistica brasiliana) e doppio ex di Atalanta e Napoli — ha costruito il proprio percorso tra Bergamo e la città partenopea. Cresciuto nel vivaio della Dea, quattro stagioni in prima squadra (1999–2003, 43 presenze e 3 gol), poi protagonista delle promozioni del Napoli (2004–2007 e 2008–2010, 102 presenze e 21 gol), la sua è una storia di viaggio, sacrifici e gratitudine, sorretta da una famiglia che è sempre stata il suo vero punto di forza. Lo è anche per il figlio Samuele, talento classe 2008, cresciuto a Zingonia e oggi al Borussia Dortmund: è anche attraverso i suoi occhi che Pià guarda il calcio di oggi.
Partiamo dall’inizio. È vero che da piccolo vendevi frutta in Brasile?
«Cercavamo di fare un po’ di tutto - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. Vendevamo gelati e preparavamo piccoli succhi — in portoghese geladinho. Io e mio fratello Joelson ci arrangiavamo come potevamo, raccogliendo frutta (banane, mandarini) per guadagnare qualche soldo e regalarci una pizza con gli amici».
Quando sei arrivato in Italia?
«Nell’agosto ’97. Avevo 15 anni e dopo qualche mese mi ha raggiunto mio fratello Joelson. Stare così lontano da casa a quell’età non era semplice. La lontananza c’era anche in Brasile — giocavo nel Santos ed ero già fuori casa —, ma era diverso: stessa lingua, stessa cultura, stesso clima. In Italia il cambiamento è stato radicale e avere mio fratello accanto ha reso tutto più semplice».
Tuo figlio Samuele sta ripercorrendo la tua strada. Adesso è più facile?
«La lontananza si sente sempre, ma spostamenti e tecnologia — telefonate e videochiamate — rendono più facile sentirsi e vedersi: la mancanza si avverte un po’ meno».
Tu invece come avevi fatto?
«Vivevo in convitto, alla Casa del Giovane, dove sono stato accolto da persone straordinarie. La vera fortuna, poi, è stata incontrare mia moglie da ragazzino: avevo 17 anni. È sempre stata la mia spalla e la sua famiglia è diventata la mia. Mi hanno sostenuto nei momenti di difficoltà: sapevo di poter contare su qualcuno».
Il tuo ricordo più bello in nerazzurro qual è?
«Tantissimi, ma soprattutto l’esordio in Serie A contro l’Inter di Ronaldo, idolo di tutti noi brasiliani. Esordire in quella partita, al di là del risultato, è qualcosa che ti resta dentro: di fronte avevo un fenomeno che avevo visto solo in tv».
Eri riuscito ad avvicinarlo a fine partita?
«Sì. Tra brasiliani si scambiano sempre due chiacchiere e ci riuscii anche con lui, anche se — da esordiente — lo guardavo come fosse un alieno. È stato bellissimo».
Prima parlavi di persone che ti sono state vicine. C’è qualcuno nell’Atalanta che per te ha fatto più di tutti la differenza?
«Ricordo con grande affetto Mino Favini: fin dal mio arrivo mi ha sempre motivato. Sapeva dire la parola giusta al momento giusto. Ci credeva davvero».
Sei rimasto in contatto con alcuni ex compagni? Magari quelli della Casa del Giovane.
«Mi sento spesso con Pazzini e Rantier, sono in contatto con Padoin e sono molto legato a Rolando Bianchi (anche se non viveva con noi in convitto). Abbiamo un nostro gruppo di quell’annata: ci scambiamo messaggi e siamo rimasti uniti».
Bergamo ti ha dato disciplina e Napoli emozioni?
«Bergamo mi ha dato tantissimo a livello educativo e di valori. Per certi versi è una città “chiusa”, ma ho trovato persone meravigliose: mi ha formato umanamente. Napoli, invece, mi ha trasmesso passione».
Quella partenopea è stata l’esperienza più bella della tua carriera?
«Calcisticamente sì. A Napoli si vive per il calcio: per chiunque è speciale. Ti fanno sentire il più forte del mondo, senza differenze tra chi gioca sempre e chi meno: se sei del Napoli, sei uno di loro. È stato il periodo in cui mi sono sentito più giocatore».
Hai sempre detto che giocare a Napoli è diverso, ma c’è qualche similitudine con Bergamo?
«Per attaccamento alla maglia e tifo, Bergamo è simile a Napoli il giorno della partita. In settimana, però, a Bergamo respiri: anche giocando nell’Atalanta puoi passeggiare in centro. A Napoli è impossibile: da un lato è bellissimo — ti senti importante —, dall’altro a volte soffoca».
A Napoli hai vissuto la doppia promozione dalla C alla A.
«Anni bellissimi. Siamo riusciti a qualificarci alla vecchia Coppa Uefa (oggi Europa League).»
Napoli–Atalanta: tu per chi tifi?
«Spero in una bella partita. Non ho il desiderio che vinca l’una o l’altra. A Bergamo sono cresciuto, vivo qui con la mia famiglia, i miei figli sono nati qui e Samuele è cresciuto nel vivaio: affetto massimo per l’Atalanta. A Napoli ho vissuto anni splendidi e ho vinto. Quindi… che sia una gran gara».
Atalanta e Napoli si ritrovano in un momento particolare. L’Atalanta ha esonerato Juric, il Napoli vive una situazione complessa. Questo può destabilizzare gli ambienti?
«A Bergamo quasi nessuno, fin dall’inizio (me compreso), era convinto della scelta Juric. Dopo Gasperini per chiunque sarebbe stato difficile, ma non sembrava la scelta giusta. Ora è arrivato un allenatore nuovo, giovane, con un’idea diversa e che ha già fatto bene: ci sono i presupposti per riprendere il percorso. A Napoli c’è confusione tra allenatore, giocatori e tanti infortuni. Non sarà facile: entrambi devono ripartire. Mi aspetto una gara tesa, ma di livello».
La differenza potrebbe farla il fattore campo?
«Sì: a Napoli l’ambiente è difficile per gli avversari, lo stadio sarà pieno. Bisognerà capire come reggerà la squadra di Conte dopo i giorni di distacco e come reagirà l’Atalanta dopo l’esonero di Juric e l’arrivo di Palladino. Io vedo in vantaggio il Napoli».
Allenatore a parte, che idea ti sei fatto dell’Atalanta finora?
«Negli ultimi dieci anni l’Atalanta è stata un modello in Italia e in Europa: complimenti a società, presidente e a tutti. I cicli iniziano e finiscono. Oggi la Dea deve ritrovare identità e guardare la classifica — sopra ma anche sotto — per accendere la scintilla. Non è abituata a stare giù: è un momento di transizione, ma deve rimettersi in corsa».
Come intermediario CBF: c’è qualche giovane promettente nell’Atalanta?
«La Dea ha sempre scoperto talenti: fa scuola. Ora, con una prima squadra così ambiziosa, è più difficile il passaggio dal vivaio, ma il lavoro sul settore giovanile resta di altissimo livello».
In Italia si dice che manchi coraggio nel lanciare i giovani. Esistono prospetti su cui scommettere?
«L’Italia ha sempre prodotto tantissimi talenti. Da qualche anno fa fatica. Serve una riprogrammazione: abbassare l’età media delle Primavere. All’estero i ventenni giocano già con i grandi (A, B, C o D), in Italia sono ancora in Primavera. Qui un ventenne è giovane, altrove è già “vecchio”. Senza ripartire da una riforma giovanile sarà dura, indipendentemente dagli stranieri. Al calcio italiano oggi manca identità».
Tuo figlio Samuele, a lungo tra i più promettenti del vivaio nerazzurro, è andato all’estero.
«Scelta dettata dalla sua volontà di fare un’esperienza fuori. Come famiglia abbiamo sempre girato e i nostri figli hanno voglia di confrontarsi con realtà diverse. Quando è arrivata l’occasione, abbiamo valutato pro e contro insieme: ha pesato la sua motivazione. Con l’Atalanta c’è sempre stata chiarezza. Il progetto tecnico del Dortmund era più concreto e questo ha fatto la differenza. Sta andando benissimo e siamo felici per lui».
È vero che è più forte di te alla tua stessa età?
«Ha più potenziale, qualità e talento. Questo non significa che vincerà la Coppa del Mondo (glielo auguro da papà), ma le basi ci sono. Deve mantenere passione e umiltà, migliorarsi, rispettare tutti. Come famiglia chiediamo educazione e rispetto: questa è la prima vittoria. Se poi realizzerà i suoi sogni, saremo felici. Noi saremo al suo fianco, passo dopo passo».
I consigli a Samuele sono gli stessi che daresti a tutti i ragazzi?
«Sì. Sono un papà che è stato professionista: i loro sogni di oggi erano i miei di ieri. Dico: sognate in grande. È il motore che aiuta nei momenti difficili. Ma l’educazione è fondamentale: ci rende più orgogliosi quando ci chiamano per dirci che i nostri figli sono gentili. In campo bisogna rendere al massimo, ma va rispettato l’ambiente. Ognuno scrive un libro: spero che quello di Samu sia la storia più bella del mondo».
Tu il tuo talento l’hai sfruttato al meglio?
«Sono sincero: mi sono accontentato delle qualità innate. Non è colpa di allenatori o direttori: sono stato discontinuo e me ne assumo la responsabilità. Potevo fare di più. Per questo cerco di far capire ai ragazzi che talento e famiglia equilibrata sono la base, ma poi serve lavoro duro: altrimenti fai solo una discreta carriera. È un peccato quando c’è potenziale per di più, ma bisogna impegnarsi davvero perché accada».
Inacio Pià parla del passato con serenità e orgoglio: Bergamo gli ha dato valori, Napoli emozioni. Oggi il sorriso più grande nasce quando racconta Samuele, che costruisce il proprio sogno su una strada simile, con la stessa passione e il medesimo coraggio. Il cerchio si chiude: la storia di Inacio continua, nei passi e nei dribbling di suo figlio.
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