Nessuno può affermare con certezza che Antonio Conte e Cesare Giacobazzi, due personaggi storicamente invisi alla piazza nerazzurra, siano stati fatti fuori da Cristiano Doni. Pensarlo non è nemmeno lecito, se è vero che l'Atalanta ha sempre avuto un presidente deputato ad assumere le decisioni del caso, anche drastiche. Eppure i due defenestrati illustri, protagonisti di una convivenza difficile con la bandiera ripudiata, ai contrasti veri o presunti con il numero 27 o 72 che ora qualche tifoso - spinto dai poteri forti locali - vorrebbe addirittura mandare al rogo (la maglia, non l'uomo) non sono riusciti a sopravvivere. Professionalmente e a Bergamo, s'intende. Il sanguigno tecnico leccese, nella stagione 2009/2010, attraversò un calvario di tredici match da subentrato al troppo galantuomo Gregucci prima di essere consegnato in pasto all'avversione della folla nell'antistadio, dove nel dopo gara col Napoli all'Epifania uno sganassone lo convinse a stracciare il contratto lasciando il resto dei soldi sul tavolo. Lo schivo, potente e oculatissimo amministratore dei conti scelto dalla famiglia Ruggeri, invece, è stato liquidato - ovvero congedato con la sacrosanta buonuscita - nell'estate 2010 dalla nuova proprietà targata Percassi. Semplicemente perché non rientrava nei piani societari, anche se l'interessato, ieri, ha richiamato alla memoria il suo suggerimento ai vertici datato 2007: fosse stato per lui, Doni sarebbe stato venduto senza se e senza ma. Progetto non certo delittuoso, ma rispedito al mittente a ogni giro di corsa.
La tentazione pericolosa, in ambo le circostanze, è abbandonarsi al sottile piacere della dietrologia. Ovvero rivalutare la posizione di due "nemici" del capitano caduto in disgrazia, quasi facendone dei santi. Un pensiero che non sembra sfiorare la gran massa dei tifosi, per carità. Ma se l'attuale allenatore della Juventus del suo passato atalantino può beatamente fregarsene, dall'alto di una posizione inattaccabile, l'ex dirigente pare aver deciso di togliersi qualche masso dalla scarpa, altro che i canonici sassolini. La lettera anonima a lui carognescamente attribuita su presunti piani bizzarri e fantascientifici del capitano per far retrocedere apposta la squadra e favorirne il passaggio di mano; il rapporto con società, staff, lo stesso Doni e il pubblico: una raffica di smentite, di rivendicazioni di autonomia, di professionalità a suo dire mal ripagata. Quella telefonata con il giornalista della "Gazzetta dello Sport", poi: apriti cielo, la privacy prima di tutto, mica si doveva passare dall'ufficio stampa come i poveri mortali. Provate a contattare di straforo un qualunque giocatore, allenatore o braccio destro del presidente che sia, e poi vediamo che succede. E non staremo qui a rimenarla sul fatto che se la scheda telefonica era quella che viene messa a disposizione dei dipendenti, allora il datore di lavoro aveva probabilmente il diritto di acquisirne i tabulati: non è materia che ci interessa, magari non è nemmeno legittimo perché un giudice di Cassazione potrebbe decidere diversamente, o semplicemente quei tabulati nemmeno esistono. Ma la rivalsa del dipendente sbolognato sull'uomo finito nella polvere e destinato all'oblìo fa riflettere, eccome.
L'interpretazione che sta passando, infatti, è la seguente: chi ha avuto da ridire con quello che è stato il monumento da non sfregiare e adesso è in fase di damnatio memoriae, automaticamente si riabilita agli occhi del mondo. In questa storiaccia infinita, a voler sforzarsi d'essere razionali e obiettivi, non si vedono né diavoli né santi: solo persone lautamente stipendiate che avranno avuto pro e contro, ovvero benemerenze ed errori di cui rendere conto, con il solo Cristiano ad aver contravvenuto - come da lui ammesso, ahinoi - alle regole. Tra intercettazioni usate come clava (viziaccio tutto italiano, di cui vergognarsi profondamente) e gossip di bassissima lega, forse, una badilata di sabbione su certe vicende sarebbe un toccasana. Di un paio di circostanze legate a certe gestioni severe oltre il lecito, nondimeno, meglio non dimenticarsi: giornalisti lasciati fuori da Zingonia in barba al diritto di cronaca, oppure inibiti all'accesso in sala ristoro all'intervallo delle partite, o ancora costretti ad accreditarsi giornata per giornata perché le tessere stagionali si erano smaterializzate per via di un bislacco sortilegio. E parliamo di professionisti - mica esistono solo dietro a una scrivania - che fanno onestamente il proprio mestiere e scrivono sul quotidiano più diffuso a livello provinciale, non sulla carta igienica. Chi di dovere se lo appunti. Sperando che questa stucchevole gara alle recriminazioni conosca finalmente non una tregua, bensì la pietra tombale del buon senso.
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