C’è qualcosa di irripetibile in Josip Ilicic, qualcosa che sfugge alla logica e appartiene solo all’anima. Il suo calcio non si spiegava: si intuiva. Quando toccava il pallone, Bergamo si fermava. Bastava un dribbling, un colpo di sinistro, un’idea che diventava poesia per ricordarci che il talento non è una questione di numeri, ma di emozioni. Poi è arrivato il buio. Quello vero, che non si vede ma si sente addosso, e che a volte non lascia scampo. Il Covid, la solitudine, le voci cattive, la depressione che lo ha colpito nel momento più alto della carriera. Proprio quando stava scrivendo la pagina più bella della storia dell’Atalanta, Ilicic ha perso la sua battaglia più difficile: quella con sé stesso.
L’ARTISTA CHE HA SFIDATO IL LIMITE – A Bergamo aveva trovato la sua dimensione. Gasperini lo aveva convinto, trasformato, spinto oltre i confini della resistenza. Gli aveva chiesto di correre come mai prima, e lui, artista fragile e ribelle, aveva risposto con la magia. Era diventato un simbolo: l’uomo che poteva decidere una partita con un tocco, ma anche cambiarne il ritmo con un’idea.
Ilicic, con la palla, non eseguiva: interpretava. Giocava per sé, ma sapeva far sognare tutti. Quando segnò quattro gol al Valencia in quella notte di marzo 2020, sembrava il culmine di un’ascesa irripetibile. L’Atalanta sfiorava la leggenda, e lui era la sua firma più elegante. Poi il mondo si fermò, e con esso si spense anche la sua luce.
IL SILENZIO E LA VERITÀ – Nessuno seppe davvero cosa accadde nei mesi successivi. Lui scelse il silenzio. Disse solo che era stato male, che non riconosceva più sé stesso. Le bugie lo ferirono più della malattia: le insinuazioni sulla moglie, la cattiveria gratuita di chi confonde il dolore con la debolezza. Ilicic non reagì con rabbia, ma con distanza. «Mi hanno offerto soldi per raccontare la mia storia, ma i dettagli li tengo per me», ha detto. Un modo per proteggere la sua umanità, non per nascondere la fragilità. È rimasto in silenzio quando tutti parlavano. Ha scelto di guarire lontano, nella sua Slovenia, dove il calcio è meno rumore e più respiro. E lì ha ritrovato la serenità, non quella dell’atleta, ma dell’uomo che ha imparato a guardarsi allo specchio senza paura.
BERGAMO, IL SUO AMORE – Il legame con Bergamo non si è mai spezzato. Anzi, è diventato eterno. Quando nel 2024 è tornato alla New Balance Arena per assistere ad Atalanta-Real Madrid, ha scoperto che nessuno lo aveva dimenticato. Lo stadio lo ha accolto come un figlio. «Non giocavi, ma era tutto per te», gli ha sussurrato Modric. Quel giorno ha capito di essere stato più che un campione: un simbolo di bellezza e vulnerabilità, due cose che raramente convivono nello sport. I tifosi non ricordano solo i suoi gol, ma la dolcezza di un uomo che non ha mai nascosto le proprie crepe.
L’EREDITÀ DEL CAMPIONE – Oggi Ilicic gioca per il Koper, nella sua Capodistria. Lo fa con leggerezza, come chi non ha più niente da dimostrare. Ha 37 anni, ma il pallone gli restituisce la gioia dei vent’anni. Vive la sua seconda vita senza pretese, con la serenità di chi ha vinto la partita più importante: quella contro l’ombra. Di lui resteranno i gesti, non i numeri. I quattro gol al Mestalla, la carezza di Gasperini, l’abbraccio di Bergamo. Resterà l’immagine di un artista che ha sofferto come un uomo e che, nonostante tutto, ha continuato a creare bellezza.
L’ULTIMA LEZIONE – Josip Ilicic ci ha insegnato che la fragilità non è una colpa. È parte del talento, come l’errore è parte del genio. In un calcio che spesso dimentica l’umanità dei suoi protagonisti, lui ha mostrato che anche un campione può crollare e rinascere, senza vergogna.
Oggi, mentre gioca “a casa sua”, non serve più contare i gol. Basta ricordare che, per qualche anno, un uomo venuto dalla Slovenia ha fatto sembrare il calcio un atto d’amore.
Autore: Lorenzo Casalino / Twitter: @lorenzocasalino
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