Ci sono allenatori che cambiano le partite, e uomini che cambiano le persone. Edy Reja appartiene alla seconda categoria. Ottant’anni appena compiuti, un traguardo che racconta molto più di una carriera: racconta un modo di vivere il calcio, con misura, eleganza e quella fermezza che nasce solo dall’esperienza. Reja è il calcio che non urla, che insegna, che ascolta. È l’immagine di una generazione di tecnici che hanno costruito con le mani, passo dopo passo, il calcio moderno italiano.
IL MAESTRO DI BERGAMO – Quando arrivò a Bergamo nel marzo del 2015, l’Atalanta era un corpo stanco, smarrito dopo l’esonero di Stefano Colantuono. In poche settimane, Reja riportò serenità, disciplina e concretezza. In un calcio già attratto dal virtuosismo, lui restò fedele alla sostanza: squadra corta, principi chiari, valori umani prima ancora che tattici. Fu la stagione delle rovesciate di Pinilla, dei primi bagliori del Papu Gomez, di un gruppo che riscoprì la solidità come forma di bellezza.
L’anno seguente costruì una salvezza senza patemi e chiuse con un ultimo atto simbolico: la vittoria a Genova contro la squadra di Gian Piero Gasperini, l’uomo che avrebbe poi raccolto il suo testimone. «Consigliai io a Percassi di prenderlo», ha ricordato più volte Reja. Aveva intuito, ancora una volta, il futuro.
IL COSTRUTTORE SILENZIOSO – A Bergamo, Reja gettò le fondamenta di un’Atalanta che avrebbe poi spiccato il volo verso la Champions - ricorda L'Eco di Bergamo - . Fu lui a valorizzare giocatori destinati a diventare colonne del progetto nerazzurro come Toloi e De Roon, allora giovani da formare e da educare. Sotto la sua gestione nacque quella cultura del lavoro, quella dedizione collettiva che ancora oggi definisce la “Dea”. Non costruì una squadra spettacolare, ma edificò un’identità, un’idea di calcio che si fonda su solidità e rispetto dei ruoli.
UN SIGNORE IN PANCHINA – Di Reja resta soprattutto l’immagine di un allenatore gentiluomo, alieno agli eccessi e alle polemiche. Mai una parola fuori posto, mai un gesto sopra le righe. «Preferisco essere chiaro», ha sempre detto. In un calcio che si nutre di slogan e di clamori, la sua sobrietà è diventata una forma di resistenza. Eppure dietro quella calma apparente si nascondeva un carattere temprato da mille battaglie: dal Molinella alla Serie A, passando per promozioni leggendarie con Napoli, Brescia e Cagliari, fino alle esperienze internazionali con Lazio e Albania, dove contribuì a far crescere una generazione di giocatori, tra cui Berat Djimsiti.
DA CAPELLO A GOMEZ – La sua vita calcistica inizia a Ferrara, alla Spal, accanto a un altro friulano destinato a scrivere la storia: Fabio Capello. Insieme non solo divisero il campo, ma anche un legame che dura da sessant’anni. E fu proprio Capello, anni dopo, a presentargli Livia, la compagna di una vita, quella che da anni lo sprona — invano — a rallentare. Anche quando il calcio cambiava pelle, Reja restava fedele a se stesso. Lo ricordano bene i tifosi del Napoli, dove firmò due promozioni consecutive, riportando il club in Europa. O quelli della Lazio, dove sfiorò la Champions con un gruppo che lo seguiva come un padre.
L’ETERNO GIOVANE – Oggi, a ottant’anni, Reja non è un reduce: è un esempio. Vive a Gorizia, tra la bicicletta e la vela, ma non ha perso la curiosità del ragazzo che partì dalla provincia con una valigia piena di sogni. Parteciperà alla Barcolana di Trieste, come ogni anno, perché per lui la vita è movimento, e il mare – come il calcio – non si governa, si attraversa.
Edy Reja è la memoria viva di un calcio che non si misura in trofei, ma in valori. Ha insegnato che si può vincere anche restando sé stessi, senza maschere né artifici. E se oggi l’Atalanta è una società modello, lo deve anche a quel friulano gentile che, con discrezione, le ha insegnato la prima regola del successo: non perdere mai la propria identità.
Auguri, mister Reja. Ottant’anni di calcio e di vita vissuta con la stessa, instancabile, eleganza.
Autore: Redazione TuttoAtalanta.com / Twitter: @tuttoatalanta
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