Prima della pandemia, pareva che il sistema calcio fosse quasi impermeabile alle crisi. Nell'ultimo decennio la crescita dell'azienda pallone ha avuto un incremento inverso e proporzionale alla decrescita di tutto ciò che la circondava. Trend opposti agli indici delle borse e ai PIL dei paesi ma il vaso di Pandora s'è scoperchiato non appena s'è palesato il Covid-19. Stadi chiusi, revenues a picco, broadcaster che faticano a pagare, scontri frontali sul futuro del pallone. L'allarme lanciato da Andrea Agnelli, palesato dal bilancio in rosso del Barcellona, evidenziato dall'ultimo report Deloitte, è chiaro: entro fine 2021, le perdite dei club delle cinque grandi leghe supereranno i due miliardi di euro. Sicché la domanda sorge spontanea: perché gli investitori americani sono interessati, ora più che mai, nell'acquisizione di club o di intere leghe?
Sei su sette, sei su tredici Quel che distona rispetto alle proprietà inglesi è che per esempio in Italia eccezion fatta per l'Inter (finché sarà) cinese, il resto sono tutte americane. Lo è il Bologna, se intendiamo il continente, nelle mani del canadese Joey Saputo. Lo è la Roma, da James Pallotta a Dan Friedkin. Lo è la Fiorentina di Rocco Commisso, il Parma di Kyle Krause. Lo è pure il Milan, nelle mani dell'hedge fund Elliott, sebbene qui il percorso sia stato più tortuoso, trovato più che voluto. Da ieri lo è anche lo Spezia, nelle mani di Robert Platek, il manager di MSD Partners che gestisce il portafogli del bilionario Michael Dell. Differente la situazione altrove: in Premier League ci sono per esempio russi (Abramovich, Chelsea), italiani (Radrizzani, Leeds United, pur con la partnership della York Family americana), arabi (Mansour Family, Manchester City), iraniani (Farhad Moshiri, Everton), sauditi (Bin Musaed, Sheffield United), cinesi (Jisheng, Southampton; Lai, WBA; Fosun, Wolverhampton). Tante anche le mani americane, soprattutto in grandi club come Manchester United, Liverpool e Arsenal. Però il rapporto costo-profitto è qualcosa di diverso rispetto all'investimento che gli americani stanno facendo ora, pur con diversi obiettivi, in Serie A.
Le acquisizioni italiane L'idea è molto chiara: i prezzi dei club si abbassano e l'idea del grande investitore staunitense è quella di approfittare del ribasso e delle proprietà in crisi per fare investimenti a basso prezzo e con ampio margine di crescita una volta che sarà superato questo momento. La linea opposta e proporzionale tra la direzione del mondo e dell'azienda calcio prima della pandemia sarà ripresa anche post Covid e per questo, ritengono gli investitori statunitensi, è ora il momento di comprare. I soldi, nel mondo, ci sono e cercano solo una nuova casa: i governi, spiegano gli analisti, andranno ora sempre più a investire su bond e azioni a fondo garantito. Un profitto più basso per gli hedge fund e per i bilionari che invece cercheranno di investire sempre più nello sport e, in Europa, nel pallone.
Non solo vincere Negli obiettivi non c'è solo la vittoria, almeno non in senso assoluto. Il calcio come motivo di guadagno e i motivi romantici che hanno spinto i tycoon a spendere in Italia sono pochi (forse Rocco Commisso, desideroso di restituire qualcosa di importante al proprio paese). Il target, però, è sempre chiaro: make money. Per questo chi investe in Europa, e in particolar modo in Italia, si è da subito adoperato per applicare i migliori sistemi di ricerca e dati per scoprire calciatori dal basso costo e dall'alto rendimento sul campo e per il portafogli. E' il caso del Parma, per esempio, che da subito si è affidato a Statsbomb, utilizzato peraltro anche dal Milan. E' il caso della Roma che si appoggia a Retexo negli Stati Uniti, che ha prima contribuito alla scelta del direttore generale, Tiago Pinto, e che ora insieme a Ryan Friedkin ha uno sguardo attento alle occasioni in quanto ai giocatori per il presente e per il player trading.
Funziona sempre? L'assioma non è certo e sicuro, non è garantito. Lo si è visto con il portafogli di Pallotta e come è andata alla Roma. Lo si è visto in Inghilterra con Sunderland e Aston Villa. Lo sperano i tifosi del Burnley di recente passato nelle mani di MSD Partners ma del domani non v'è certezza ma certamente lì guarda con interesse anche il tifoso dello Spezia. Pure l'invasione del modello Moneyball, sublimato nel calcio europeo da Brentford e Midtjylland, è ora diventato una moda. Talvolta funziona anche a grandi livelli, vedi l'attenzione maniacale ai dati che è propria del Liverpool del ds Michael Edwards e di tutto il suo staff. Ma se tutti si omologheranno con gli stessi metodi e sistemi, credendo di aver tutti la stessa identica ricetta per mille problemi differenti, allora funzionerà per pochi. Il modello Europa, per quanto economicamente instabile e per certi aspetti non più sostenibile, ha delle basi di gestione calcistica che non può esser stravolto dall'avvento dei meri dollari. C'è di più e questo non tutti riescono ad analizzarlo e farlo proprio.
I fondi, il futuro Per quale motivo i fondi investono nei club, nei diritti tv, nelle leghe? Uno solo. Soldi. Non c'è nessun aspetto romantico, nessun interesse di cuore. Profitto. Perché, dunque, sono proprio le grandi proprietà americane o quelle più internazionali (Glazers, Gazidis per Elliott, Agnelli, Perez), a volere la Superlega? Profitto. Incassi. Perché CVC vuole investire nella Serie A, perché BC Partners nell'Inter, perché Goldman Sachs è partner del Barcellona per gli investimenti fuori dal pallone? Un solo motivo. Far soldi. Per gli americani è giunto il momento ed è adesso. Per l'Italia sembra solo l'inizio.
Autore: Redazione TuttoAtalanta.com / Twitter: @tuttoatalanta
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