La serata di Parigi ha messo a nudo tante fragilità dell’Atalanta, e tra queste anche quella del suo capitano. Marten de Roon, solitamente baluardo di ordine e sacrificio, contro la corazzata di Luis Enrique è sembrato andare fuori giri. Un episodio isolato? Probabile. Ma da qui nasce una riflessione più ampia.
Perché de Roon è molto più di un centrocampista: è un simbolo, un riferimento tecnico e morale, il secondo allenatore in campo. Proprio per questo, forse, è giunto il momento di cominciare a gestirlo in modo diverso. Preservarlo non è una resa, ma un investimento. Con l’arrivo di Musah, l’attesa per il rientro di Ederson e la crescita di Pasalic in mediana, Juric ha finalmente gli strumenti per dosare energie e minutaggio, senza snaturare l’equilibrio del centrocampo.
Non si tratta di spodestare il capitano, né di ridurne il peso specifico: semmai, di garantirgli continuità di rendimento, senza pretendere da lui il solito tour de force che nell’era Gasperini sembrava un dogma. Una stagione lunga, tra Serie A e Champions, impone intelligenza nella gestione: dosare de Roon oggi significa avere un de Roon migliore nei momenti cruciali.
E c’è un altro aspetto che non va dimenticato: dentro lo spogliatoio, in questa Atalanta giovane e in piena fase di transizione, la sua voce e la sua presenza restano decisive. È lì che il capitano continua a fare la differenza, al fianco di Juric, nell’accompagnare la crescita della Dea.
Il futuro? Forse lo vedremo davvero in panchina, a disegnare schemi e ad allenare, perché tutto lascia pensare che de Roon abbia già oggi il profilo dell’allenatore di domani. Ma il presente dice che l’Atalanta non può rinunciare al suo cervello e al suo cuore. Può, però, imparare a custodirli meglio.
Autore: Lorenzo Casalino / Twitter: @lorenzocasalino
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