Non è soltanto Atalanta–Como. È una partita che diventa memoria, celebrazione e affetto per una figura che ha unito indissolubilmente due realtà del calcio giovanile: Mino Favini. Il “maestro” di Zingonia e del vivaio lariano ha formato generazioni di ragazzi, trasformando il calcio in uno strumento di crescita umana oltre che sportiva. A raccontarlo oggi ai microfoni di "Nerazzurro Stadio", con dolcezza e verità, è sua nipote Francesca, che consegna un ritratto intimo di un uomo che ha saputo essere non solo formatore e osservatore, ma soprattutto educatore e nonno di tutti. Ecco quanto evidenziato da TuttoAtalanta.com
UN NONNO AFFETTUOSO – «Io abitavo in Romagna, il nostro era un rapporto a distanza – ricorda Francesca –. Me lo godevo quando veniva al mare con la nonna, oppure andavo al lago di Garda. Nonostante non ci vedessimo spesso, era sempre presente e affettuoso. Io ero la sua unica nipote, ma sembrava che ne avesse tanti altri, perché trattava i ragazzi del settore giovanile come figli».
IL NONNO DI TUTTI – Gelosia per quell’affetto condiviso? Mai. «Vedevo quanto amasse il suo lavoro. Per lui il calcio non era né un mestiere né una passione: era la sua vita. Quando perse la nonna e smise di lavorare, cadde in una tristezza profonda, perché i pilastri della sua esistenza non c’erano più».
L’EDUCATORE – Favini non era soltanto un uomo di campo. Credeva in un calcio che formasse persone, prima ancora che calciatori. «Per lui il talento non era solo nei piedi – spiega Francesca –. Doveva esserci anche la testa, i valori, la capacità di studiare. Guardava al potenziale umano oltre che tecnico. Per questo i suoi insegnamenti non erano mai distruttivi, ma sempre costruttivi. Era fermo ma non alzava mai la voce».
LA PASSIONE INESAURIBILE – La nipote ricorda bene la luce che si accendeva negli occhi del nonno quando si parlava di calcio: «Brillava. Anche negli ultimi periodi, quando non stava bene, bastava nominarlo e ritrovava energia. Non riusciva mai a staccare davvero, era il papà di tutti».
IL SEGRETO DEL SUO SGUARDO – Qual era la sua forza nel riconoscere i campioni? «Credo fosse l’empatia. Sapeva vedere dietro al giocatore, captava l’uomo. Per questo tanti lo ricordano come il nonno che aveva sempre una carezza e un sorriso. Non aveva segreti né maschere: era trasparente, con occhi buoni e un sorriso accennato che non dimentico».
LA LEGACY DI ZINGONIA – Dal 1991 al 2015 Favini ha costruito a Bergamo un patrimonio che continua a vivere nei ragazzi cresciuti a Zingonia, nei valori trasmessi e nelle carriere forgiate. Prima, al Como, aveva già fatto la storia di un vivaio apprezzato in tutta Italia. Poi tornò lì, chiudendo il cerchio come consulente. Sempre con la stessa umiltà: «Non si è mai vantato – sottolinea Francesca –. Sapeva di aver fatto tanto, ma non se lo attribuiva mai. Questo era lui».
IL RICORDO DI FAMIGLIA – «Penso spesso che oggi la sua assenza si senta molto nel calcio italiano – confida Francesca –. Lui ci ha insegnato a esserci per gli altri, a vivere con valori solidi. Io gli devo il senso della dedizione: quando faccio qualcosa, ci metto tutta me stessa. È quello che mi ha trasmesso».
Atalanta e Como si ritrovano sul campo, ma sopra le due squadre resta l’ombra luminosa di Mino Favini: osservatore geniale, educatore unico, nonno di tutti. Per i suoi ragazzi e per la sua famiglia, il ricordo resta quello di un uomo buono, capace di formare calciatori ma, soprattutto, uomini. E questo è il suo lascito più grande.
Autore: Redazione TuttoAtalanta.com / Twitter: @tuttoatalanta
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