Guido Marilungo è uno di quei giocatori che, anche davanti agli ostacoli più duri, non ha mai smesso di guardare avanti. All’Atalanta ha vissuto tre stagioni effettive, da gennaio 2011 a gennaio 2014, totalizzando 47 presenze e 6 gol. Poi, pur restando sotto contratto fino al 2018, ha proseguito la carriera in prestito. I due gravi infortuni che lo hanno colpito non ne hanno mai scalfito lo spirito. Oggi quella stessa determinazione la mette nel suo nuovo ruolo di scout per la BSP Football Agency, alla ricerca di giovani talenti da valorizzare. Professionista serio, uomo equilibrato e lucido, Marilungo racconta con sincerità un percorso fatto di sacrifici, rivincite e passione autentica per il calcio.

Guido, sei arrivato all’Atalanta nel gennaio 2011, ma già da piccolo avevi fatto un provino con la società nerazzurra.
«Eravamo io e Jack Bonaventura. Avevamo 13 anni e giocavamo nel Montegranaro Calcio. C’era una squadra affiliata, il Castel Raimondo, dove facevano provini. Ci notarono e ci invitarono a Bergamo per un torneo di prova di dieci giorni, ma poi non ci presero. Un mese dopo mi chiamò la Sampdoria: altro torneo, altra opportunità, e a 14 anni andai a Genova. Jack restò nelle Marche un altro anno, poi approdò all’Atalanta».

Perché ti avevano scartato?
«Probabilmente per la fisicità: ero piccolino. Ma è normale. Devi scegliere tra cento ragazzi bravi e prenderne tre o quattro: non è facile. In dieci giorni non è semplice valutare il potenziale e la capacità di apprendimento di un giovane. Evidentemente, all’epoca, preferirono altri».

Sei arrivato a Bergamo più avanti, ma non è mai facile colmare quel divario.
«Esatto, perché tra i 14 e i 18 anni si forma la differenza. C’è chi continua a crescere e chi si ferma. A quell’età sei ancora in pieno sviluppo. Magari uno a 14 anni è indietro e sembra meno pronto, ma due anni dopo lo supera. Nel calcio si impara in fretta, e in poco tempo puoi ribaltare le gerarchie».

Per passare dalla Sampdoria all’Atalanta hai accettato di scendere di categoria.
«Sì, la Samp era in Serie A e l’Atalanta in B. A fine campionato, però, la Samp retrocesse e l’Atalanta salì in A. È stato un incrocio curioso, ma non certo per merito mio (ride, ndr). Per me arrivare all’Atalanta è stata una rivincita personale: scartato da ragazzino, preso da grande. E di Bergamo non posso dire che bene: città splendida, tifosi calorosi, ambiente sano. Oggi l’Atalanta è diventata un top club, ma già allora si percepiva la mentalità vincente».

I due infortuni gravi, nel 2012, non hanno reso amara la tua esperienza?
«No. Gli infortuni fanno parte del mestiere. Ho rotto il crociato due volte nello stesso anno: a marzo e poi a novembre, in Coppa Italia col Cesena. È stato un periodo duro, ma pensavo solo a rimettermi in sesto. La mia priorità era tornare in campo».

Non hai rimpianti?
«Assolutamente no. Ho sempre dato tutto e, fino a quando il fisico me lo ha permesso, sono rimasto ad alti livelli. Gli infortuni sono imprevedibili: alcuni non ne hanno mai, altri sì. Io li ho avuti, ma sono contento della mia carriera. Ho fatto il massimo possibile e questo mi basta».

Eri considerato uno dei giovani più promettenti del calcio italiano. Ti è mai pesato quel destino interrotto?
«A me piace parlare solo di quello che si è fatto, non di quello che si sarebbe potuto fare. Forse senza infortuni sarei rimasto più a lungo ad alto livello, ma il calcio è anche questo. Conta quello che dimostri in campo».

Chi ti aveva voluto a Bergamo?
«Mi volle fortemente la famiglia Percassi, e io ero felicissimo di accettare».

Percassi, all’epoca appena tornato alla presidenza, mostrava già ambizioni importanti?
«Sì, era carico e ambizioso, ti trasmetteva la voglia di vincere. Io arrivai in Serie B e vincemmo subito il campionato. Non mi aspettavo una crescita così esaltante fino a diventare la società che è oggi, ma era chiaro fin da allora che l’Atalanta avrebbe fatto grandi cose».

Sei rimasto in contatto con qualcuno dell’Atalanta?
«Con Bonaventura e Capelli soprattutto. Ogni tanto torno a Bergamo: l’anno scorso sono andato a salutare anche Bellini, che era il mio capitano. Rivedersi è sempre bello».

Un ricordo che porti nel cuore?
«Lo striscione che mi dedicarono i tifosi quando mi infortunai: “Guido non mollare”. Ho ancora la foto sul telefono. Mi emoziona ogni volta».

Oggi lavori ancora nel mondo del calcio?
«Sì, per la BSP Football Agency di Silvio Pagliari, il mio procuratore da sempre. Faccio scouting: una grande opportunità che mi ha dato appena ho smesso di giocare».

Ci sono giovani promettenti nel panorama italiano?
«Sì, ma credo che non vadano pubblicizzati troppo presto. Se faranno bene, arriverà il loro momento. Oggi si cerca subito il “nuovo Totti” o il “nuovo Del Piero”. Invece dovrebbero solo pensare a giocare e migliorarsi, senza pressioni o riflettori».

Vedremo mai altri Totti o Del Piero?
«Spero di sì, perché ci hanno fatto divertire, ma è difficile: giocatori così nascono una volta ogni vent’anni. Me lo auguro, per il bene del calcio italiano e dei tifosi».

Anche nel vivaio dell’Atalanta ci sono giovani interessanti?
«Per me il settore giovanile dell’Atalanta è il migliore d’Italia. Ci sono tanti ragazzi promettenti e sono sicuro che presto ne usciranno altri forti».

Maldini, Bernasconi, Ahanor: che idea ti sei fatto?
«Giocano nell’Atalanta, quindi sono forti. A volte basta un attimo per diventare fortissimi: dipenderà da loro».

Su Ahanor c’è grande attenzione: può essere un’arma a doppio taglio?
«Sì, secondo me sì. Io li lascerei divertire. Quando c’è troppa attenzione, arrivano anche pretese e pressioni. A quell’età bisogna lasciarli crescere in serenità».

Dove può arrivare l’Atalanta?
«Ovunque. È in corsa su tutti i fronti. È una squadra forte. Juric ha raccolto un’eredità pesante, ma sta facendo benissimo. Non era facile sostituire Gasperini dopo tutto quello che aveva costruito, ma Juric ha saputo farlo e in poco tempo. È sulla strada giusta e io sono contento, perché sono sempre felice quando vince l’Atalanta».

Quindi può ambire a tutto, in Europa e in campionato?
«Perché no? Le partite vanno giocate. Non vince sempre il più forte. Conta la forma, il momento, gli episodi. In Europa ci sono squadre più attrezzate, ma nelle gare secche può succedere di tutto. Nel calcio anche Davide può battere Golia».

La partita con lo Slavia Praga sarà decisiva per il passaggio del turno?
«In Champions è sempre dura, con chiunque. Ma abbiamo già visto a Liverpool che l’Atalanta può vincere ovunque: nessuno si aspettava quel 3-0. Il calcio è imprevedibile e questo è il suo bello».

E Atalanta–Lazio?
«La Lazio, dopo un avvio complicato, si è ripresa ma ha perso il derby. Resta una squadra di qualità, concentrata solo sul campionato. Sarà una partita tosta, ma l’Atalanta ha le carte in regola per imporsi».

Guido Marilungo guarda al passato senza rimpianti, ma con orgoglio e serenità. Gli infortuni non hanno cambiato il suo modo di essere: positivo, solare, appassionato. Oggi continua a vivere il calcio da un’altra prospettiva, ma con la stessa luce negli occhi. Perché chi ama davvero questo sport non smette mai di farne parte.

© Riproduzione riservata 

Sezione: Primo Piano / Data: Ven 17 ottobre 2025 alle 00:00
Autore: Claudia Esposito
vedi letture
Print