Non servono voci alte per farsi sentire, né gesti eclatanti per lasciare un segno indelebile. Marten de Roon, in dieci anni di Atalanta, ha dimostrato proprio questo: che la forza più autentica di un leader sta spesso nel silenzio, nell’esempio quotidiano, nel rispetto profondo verso compagni e tifosi. E soprattutto nell’essere se stesso, sempre, con una sincerità disarmante.
L’olandese arrivato a Bergamo quasi per caso, accolto inizialmente dallo scetticismo tipico delle piazze che vivono il calcio con intensità bruciante, è diventato in breve tempo un simbolo imprescindibile della Dea, la perfetta sintesi tra valori sportivi e umani che pochi club riescono a incarnare con tanta precisione.
Nella sua recente intervista a Cronache di Spogliatoio, De Roon si è aperto completamente, offrendo un ritratto potente e sincero di sé. A colpire non è stato solo il racconto delle lacrime versate per la finale di Europa League saltata per infortunio, o l’aneddoto struggente sull’abbraccio con Josip Ilicic dopo una crisi emotiva. A colpire davvero è stato l’uomo dietro al calciatore, quello che riflette sulla famiglia, sull’identità delle figlie ormai «più italiane che olandesi», sull’importanza dei piccoli gesti quotidiani e sull’eredità umana da lasciare ai giovani compagni.
De Roon incarna quella dimensione “normale” del calcio che abbiamo quasi dimenticato, soffocati dalla logica esasperata di soldi, ego smisurati e contratti milionari. Invece lui, con semplicità quasi disarmante, racconta l’importanza del rispetto, della sincerità, dell’esempio. Racconta quanto conti avere al proprio fianco persone autentiche, come Antonio Percassi, presidente-tifoso che vive l’Atalanta più con il cuore che con il portafoglio. Oppure la capacità unica del club bergamasco di restare una famiglia, prima ancora che una squadra.
Ma il punto più significativo della riflessione di De Roon riguarda proprio il cambiamento che l’Atalanta sta per affrontare. Con l’addio di Gasperini e di compagni storici come Toloi, si avvicina anche la fine di un ciclo umano e sportivo straordinario. E lui lo sa bene, sente questo momento sulla propria pelle con un misto di orgoglio e malinconia. Un passaggio delicato, ma che proprio un uomo come De Roon può aiutare a gestire, mantenendo intatti quei valori profondi che hanno reso grande la Dea.
Ed è questo il vero patrimonio dell’Atalanta: non solo i risultati straordinari, ma l’anima autentica di giocatori capaci di emozionarsi per una semplice lettera ricevuta da un bambino o per un messaggio di ringraziamento da un tifoso che, grazie a loro, ha riscoperto la passione per il calcio. È un patrimonio che andrebbe custodito gelosamente, proprio perché rarissimo.
Ecco perché perdere Marten de Roon, anche soltanto immaginarlo lontano da Bergamo, fa paura. Perché significherebbe perdere un pezzo di anima, un esempio che in un calcio sempre più distante dalla gente rappresenta una risorsa insostituibile.
Marten non è solo il capitano dell’Atalanta, è il capitano ideale di un calcio più umano e genuino, in cui la vittoria più grande non è sollevare una coppa, ma lasciare dietro di sé un segno di passione, rispetto e umiltà. Qualità che Bergamo ha imparato ad amare follemente, e che adesso non può permettersi di perdere.
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