Ci sono notti che una città vorrebbe cancellare per sempre dalla memoria, ma che invece restano scolpite come ferite profonde, impossibili da rimarginare. La tragica fine di Riccardo Claris, ucciso da un ragazzo di appena 18 anni al culmine di una banale lite da stadio, è una di quelle notti che Bergamo non potrà e non dovrà dimenticare.
Il calcio, che di questa vicenda è solo un triste contorno, diventa paradossalmente l’elemento meno importante. Ciò che emerge, chiaro e brutale, è invece un malessere più ampio, un virus sociale che fa della violenza una risposta quasi naturale, specialmente tra le generazioni più giovani. Una coltellata alla schiena, improvvisa e senza senso, che stronca una vita piena di progetti, di passione e di futuro, è la più assurda e dolorosa dimostazione di come i valori di rispetto, convivenza e tolleranza si siano tristemente sgretolati nella quotidianità.
Non ci può essere giustificazione per quanto accaduto, né attenuanti dietro cui nascondere le nostre responsabilità collettive. Sì, perché quello che è successo fuori dal Gewiss Stadium è il risultato di una deriva che tutti, amministratori, genitori, educatori e istituzioni, avrebbero dovuto intercettare e prevenire. Non basta più la solita indignazione momentanea, né serve circoscrivere il problema alle tifoserie o alla sicurezza intorno agli stadi. Qui la questione è più ampia, e riguarda un’intera società che ha smarrito la capacità di gestire i conflitti, che ha normalizzato gli insulti, l’aggressività e, in casi estremi, la violenza vera e propria.
Oggi Bergamo piange un giovane tifoso, Riccardo, ma piange anche se stessa, interrogandosi su come sia stato possibile arrivare a tanto. Perché ciò che fa paura non è solo la violenza in sé, ma la facilità con cui essa scaturisce da situazioni ordinarie, quotidiane, in cui basterebbe poco per smorzare i toni e invece tutto esplode, con esiti drammatici.
La famiglia Claris merita giustizia e rispetto, ma merita soprattutto che questa morte assurda diventi un punto di svolta, un momento in cui ci fermiamo per chiederci come educare davvero le nuove generazioni a una cultura differente, fondata sulla convivenza civile e sul rispetto delle regole. Come ha ricordato e sottolineato la sindaca Elena Carnevali ai microfoni de L'Eco di Bergamo, è il momento di stipulare un grande patto educativo, che coinvolga non solo le istituzioni, ma anche famiglie, scuole, società sportive e associazioni. Un patto che non può attendere, perché troppe sono già le vittime, troppe le giovani vite sprecate inutilmente.
Non chiamiamola rivalità calcistica, non chiamiamola passione. Quello che è accaduto è solo violenza, nuda e cruda. È una sconfita di tutti noi, prima ancora che del calcio o della città. Ed è proprio da questa sconfitta che bisogna ripartire, con coraggio e determinazione, per evitare che un'altra notte così assurda possa tornare a ripetersi.
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