«Voglio lottare, non morire. L’Atalanta merita tutto il nostro amore». Il calcio, a volte, non racconta solo emozioni, gol e classifiche. Racconta anche storie più dure, umane, segnate da un dolore che il tempo non riesce a guarire. È la storia di Claudio Galimberti, il “Bocia”, leader carismatico della Curva Nord atalantina, che attraverso una lettera intensa pubblicata sul profilo Facebook ufficiale di Xavier Jacobelli, ha deciso di raccontare al popolo nerazzurro tutta l’amarezza accumulata in trent’anni di Daspo e persecuzioni giudiziarie.
TRENT’ANNI SENZA STADIO
Galimberti non nasconde il suo dolore per una passione negata da un provvedimento che sembra infinito: «Ho raggiunto i trent’anni di Daspo e, pur vivendo lontano da Bergamo, continuo a subire una repressione inaccettabile. Mi è stato impedito di vivere normalmente, togliendomi anche la possibilità di avere un lavoro autonomo e una patente». Le sue parole, nette e forti, non lasciano spazio a interpretazioni: è un uomo che si sente vittima di una ingiustizia costante, logorante, priva di scadenze certe.
IL SOSTEGNO DELLA FAMIGLIA
C’è un passaggio che colpisce al cuore, in cui Claudio Galimberti rivela il sostegno discreto e commovente della sorella, che negli anni si è battuta per lui, cercando disperatamente una via d’uscita umana a una vicenda giudiziaria infinita: «Mia sorella Paola, 64 anni, a mia insaputa è andata più volte in Questura per chiedere al questore uno spiraglio di luce per me. A me non è mai stata data una vera possibilità». Un’accusa precisa, quella del Bocia, che colpisce un sistema che non perdona e non dimentica.
ATALANTA, FEDE E APPARTENENZA
Ma questa lettera è soprattutto un appello d’amore per l’Atalanta, per una squadra e un popolo che Claudio non smetterà mai di amare. Un sentimento che trascende il campo e i risultati, nutrito fin da bambino grazie a una famiglia che ha l’Atalanta nel sangue: «Mia madre, in fin di vita, mi disse: “Se non ce la faccio, lo scudetto sulla maglia te lo cuce la zia Rosanna”. Sono ricordi indelebili che danno forza al mio attaccamento a questi colori». Una fede calcistica, ma soprattutto una questione identitaria, una storia d’appartenenza che Galimberti non è disposto ad abbandonare.
UN GRIDO DI LIBERTÀ
«Io voglio lottare, non morire – scrive ancora Galimberti –. E se Dio vorrà, riuscirò a smuovere le coscienze di chi si limita a stare sul carro dei vincitori senza capire che la vera partita da vincere, nella vita, è quella della libertà». In queste parole c’è tutta la battaglia interiore di un uomo che non si arrende, consapevole che l’Atalanta è più di una squadra: è un pezzo della sua stessa vita. Ed è in fondo questo che Claudio Galimberti vuole ricordare a tutti: non lasciamo che la passione muoia sotto i colpi dell’ingiustizia.
Che vinca o perda sul campo, l’Atalanta ha già vinto grazie a storie come quella del Bocia, esempio di un amore che non conosce limiti, neanche quelli del tempo e della distanza forzata. L’unica partita che conta davvero, quella della libertà e della dignità, è ancora tutta da giocare.
Autore: Lorenzo Casalino / Twitter: @lorenzocasalino
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