Daniele Belotti è una delle figure più riconoscibili del mondo atalantino: tifoso instancabile, autore di una collana di libri che raccontano decenni di passione, ma anche politico e punto di riferimento nei rapporti tra tifoseria e istituzioni. Dalla Curva alla scrittura, passando per le trasferte in moto e le iniziative simboliche in città, l’ex deputato della Lega Nord ed ex assessore regionale al Territorio e Urbanistica ha vissuto il tifo come parte integrante della propria identità. Una storia personale che s’intreccia con quella di Bergamo e della sua squadra.
Daniele, la tua passione per l’Atalanta nasce da bambino?
«Giocavo a calcio, mi piaceva, ho iniziato ad andare allo stadio e da lì sono arrivato a sottoscrivere il cinquantesimo abbonamento consecutivo - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. All’inizio mi accompagnava mia mamma in giro per l’Italia. Ho iniziato quando avevo 7 anni».
E ora, invece, ti accompagna tua figlia Beatrice.
«Ha 23 anni e sono ormai 15 anni che ha l’abbonamento. Ha iniziato prestissimo anche lei. Quella nerazzurra è una fede che si trasmette di generazione in generazione».
Ricordi la tua prima volta in Curva?
«Era un Atalanta–Catania finita 1-1. Il primo abbonamento, a 7 anni, l’avevo fatto in Curva Sud».
Presente in casa e in trasferta. Ne ricordi una in particolare?
«Prima andavo quasi sempre, ora un po’ meno. Qualche trasferta in campionato e quelle europee. Ricordo in particolare gli anni ’80 e ’90, a Lecce e Bari: si stava in giro anche 2/3 giorni. Per un tifoso, al di là della partita, è tutto il viaggio a fare la differenza. Divertenti poi le trasferte in moto. La prima fu a Brescia, nel 1987, ma anche a Como, dove ho conosciuto mia moglie, nel 1989. Eravamo tutti in moto: motorini, Vespe “truccate”. Io andai con una Moto Guzzi, un Galletto degli anni ’50, giubbino stile easy rider con il teschio sul retro e, al posto del casco, una pentola in testa».
Se ne fanno ancora oggi?
«La penultima fu quella di Milano, quella del famoso motorino lanciato dalla curva interista nel 2001. Poi una pausa di oltre vent’anni e l’ultima a Cremona nell’aprile 2023: circa 500 moto».
Come nasce il progetto “Atalanta Folle Amore Nostro”, la tua collana che racconta la storia dell’Atalanta? Cosa ti spinge a documentare la storia della tifoseria?
«La storia inizia il 12 dicembre 1971, data di fondazione del primo gruppo organizzato, gli Atalanta Commandos. Da lì è stato documentato un pezzo di storia di Bergamo: non solo dell’Atalanta, ma di decine di migliaia di persone passate in Curva. A differenza dei libri sulle squadre, nei miei volumi i protagonisti sono i tifosi: migliaia di persone che possono ritrovarsi nelle foto e nei racconti, rivivendo momenti vissuti in prima persona. Non c’è solo la squadra: c’è la gente, compresi tifosi che poi, nella vita, hanno fatto carriere di rilievo».
Un aneddoto particolare?
«Il libro è stato tradotto e venduto anche all’estero: 1.500 copie in Germania, poi Francia e Austria. C’è un giro di collezionisti. Mi dicono che nessuna squadra ha una collana così: esistono solo singoli libri sulle tifoserie, e per me è una soddisfazione. Due inediti dal primo dei quattro volumi: il primo riguarda Vincenzo Paparelli, tifoso laziale morto nel derby Roma–Lazio del 1979, colpito da un razzo navale dalla Curva Sud. Cosa c’entra l’Atalanta? All’epoca i nostri tifosi erano gemellati con la Roma. Chi sparò – identificato come “Zigano” – era ricercato e, grazie ad amici atalantini, si rifugiò per settimane in una baita in Val Seriana, poi scappò in Svizzera: non si era mai saputo. Il secondo episodio, sempre fine anni ’70, riguarda Perugia–Atalanta: il nostro portiere Luciano Bodini fu colpito da un sasso proveniente da un settore con lo striscione delle Brigate Nerazzurre. Allora in trasferta si andava in 30/40. I tg accusarono i tifosi dell’Atalanta: “Perché un atalantino dovrebbe colpire il proprio portiere?”, ci chiedevamo. Ci fu un rimpallo di accuse; a distanza di trent’anni si scoprì che fu davvero un atalantino “sopra le righe”».
Hai suggerito l’uso della collana nelle scuole elementari: cosa dovrebbero imparare i più giovani dal tifo?
«La Curva dell’Atalanta ha fama internazionale. Prima delle vittorie dell’era Gasperini, la Dea era più conosciuta per la tifoseria che per la squadra. La userei come libro di testo per tramandare una tradizione legata al territorio. Quando andavo nelle scuole chiedevo sempre di che squadra fossero: soprattutto Milan, Inter e Juventus, più dell’Atalanta. Negli ultimi anni la tendenza si è invertita: più bambini tifano Atalanta perché le vittorie accendono il tifo a quell’età. Ma oggi la concorrenza è globale: Barcellona, Real, club inglesi. Se non si tramanda di padre in figlio il tifo nerazzurro, si rischia di perdere un simbolo identitario della nostra terra».
C’è un personaggio che, più di tutti, per te rappresenta l’Atalanta?
«Tra i giocatori Cristian Raimondi, il tifoso che realizza il sogno di giocare nella squadra del cuore, e Marten De Roon, arrivato in una città per lui sconosciuta e diventato simbolo di attaccamento viscerale. Come allenatore Emiliano Mondonico, perché, ancor prima di Gasperini, ci ha fatto vivere emozioni uniche, tra cui la cavalcata in Europa. Tra i tifosi, il Bocia perché, tra mille difetti, ha messo l’anima per l’Atalanta».
Per anni sei stato figura di collegamento tra tifosi, Forze dell’Ordine e istituzioni. È stato difficile conciliare identità da tifoso e responsabilità politiche?
«Assolutamente no, anche se per il mio ruolo mi sono fatto sei anni sotto processo, per poi essere pienamente assolto: quattro assoluzioni in fase di giudizio preliminare senza nemmeno entrare in aula. Ogni volta che venivo assolto dal Gip, il Pubblico Ministero faceva ricorso. Sono arrivato in Cassazione per l’assoluzione definitiva. Ho vinto».
L’inchiesta “Doppia Curva” ha mostrato infiltrazioni mafiose e accordi illeciti tra Curve per il controllo del tifo e dei profitti. A te che vivi da vicino il mondo ultras, che effetto fa? È un rischio strutturale o una degenerazione?
«La Curva dell’Atalanta, come altre “provinciali”, potrà avere difetti e qualche disordine, ma in 54 anni di storia a Bergamo non c’è mai stato business o infiltrazioni criminali. Mai. Anzi: sono state raccolte decine di migliaia di euro in beneficenza. Episodi di violenza sì, ma nulla a che vedere con criminalità o affarismo. Non è un caso isolato: in passato ha riguardato altre piazze. Le grandi città possono avere infiltrazioni. Mentre a Milano facevano la cresta sui biglietti, a Bergamo si faceva cassa comune per ridurre il costo delle trasferte e permettere a tutti di partecipare».
Pronti per il 118° anniversario di fondazione dell’Atalanta?
«Il 17 ottobre verrà svelata una statua di marmo alta due metri che riproduce la Coppa di Europa League vinta dall’Atalanta. Progetto unico in Italia: nessun’altra città ha un monumento legato a una vittoria sportiva. Un’iniziativa a cui stanno partecipando migliaia di tifosi».
Della nuova Atalanta che idea ti sei fatto?
«È presto: vediamo, speriamo. Il problema è che ci siamo abituati troppo bene: le aspettative crescono, ma chi ha qualche capello bianco e ha vissuto anche la Serie C sa che quello che abbiamo visto è andato oltre i sogni. Emozioni impensabili: non sarà sempre così, ma intanto le abbiamo vissute».
Dopo la sosta, Lecce in campionato e Paris Saint-Germain in Champions: il tuo pronostico?
«Facciamo che a Parigi pareggiamo. Io ci sarò con mia figlia e ci vado ottimista. E col Lecce vinciamo: ora è obbligatorio farlo».
Tra memoria, militanza e passione, Daniele Belotti rappresenta un modo autentico di vivere il tifo: viscerale ma responsabile, legato al territorio e lontano da ogni logica di business. In un calcio che cambia, lui resta fedele alla sua Dea e continua a raccontarla con passione e orgoglio. Fiero di essere nerazzurro. Sempre.
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