A dodici anni ha lasciato casa per inseguire un sogno che si chiamava Atalanta. A Bergamo è cresciuto, ha imparato la disciplina del calcio e quella della vita. Lontano da casa, tra lacrime e allenamenti, Luciano Zauri è diventato uomo. Poi la Lazio, la consacrazione e le notti europee. Da Bergamo a Roma, undici stagioni tra due squadre che più diverse non potrebbero essere: una che ti forgia, l’altra che ti consacra. L’Atalanta è la squadra del settore giovanile (1993–1997), dell’esordio in A, di sei stagioni tra i professionisti (1996/97 e 1998–2003) con 175 presenze e 3 gol; la Lazio quella di altre cinque stagioni (2003–2008) con 178 presenze e 6 gol. Due colori, due vite, lo stesso destino intrecciato. Oggi, allenatore del Campobasso in Lega Pro, a 47 anni Zauri porta dentro di sé i valori appresi tra i campi della Dea: lavoro, serietà, silenzio e sacrificio. Alla vigilia di Atalanta–Lazio si racconta a TuttoAtalanta.com con l’equilibrio e la sincerità di sempre, ripercorrendo una vita a doppio filo con due maglie, due città e una sola grande passione: il calcio.
Luciano, s’incontrano Atalanta e Lazio. Per te è una partita particolare?
«Sì, due squadre e due momenti molto importanti per la mia vita, sia umanamente che calcisticamente - racconta, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com - . L’Atalanta è la squadra che mi ha preso bambino e mi ha fatto diventare uomo: con lei ho passato 13 anni della mia vita, da quando avevo 12 anni. La Lazio è quella che mi ha consacrato nel mondo del calcio: ho giocato competizioni importanti, ho conquistato qualche trofeo ed è stata una vetrina internazionale».
Cosa hanno significato Atalanta e Lazio nella tua carriera?
«L’Atalanta è stata il mio punto di partenza. Sono andato via da casa a 12 anni e ho fatto la trafila nel settore giovanile: era il mio sogno che, anno dopo anno, si concretizzava. Poi la Lazio: sono passato dalla retrocessione con l’Atalanta a giugno ai preliminari di Champions ad agosto, catapultato in un mondo completamente nuovo. È stato tutto veloce, bello».
Ricordi la prima volta che hai affrontato l’Atalanta da ex? Cosa hai provato?
«È stato come tornare a casa senza essere mai andato via davvero. Emozione forte, anche perché rivedevo ex compagni che fino a poco prima erano i miei compagni di camera e di viaggio. Rimettere piede allo stadio di Bergamo è stato molto particolare e importante».
È vero che l’Atalanta ti aveva già cercato, ma tua mamma non aveva voluto?
«Era autunno. A Pescina fa molto freddo. C’era una partita dei grandi: stavo facendo passaggi a bordocampo con mio fratello e – mi dissero poi – c’era un osservatore dell’Atalanta. Avevo 10 anni: fermò il provino dei grandi per vedermi palleggiare e calciare con mio fratello. Mi voleva a Bergamo, ma mamma non se la sentì: ero troppo piccolo e sarei stato da solo. Due anni dopo tornarono a cercarmi e disse di sì, forse anche per rimorso; ma a 12 anni, senza genitori, non è per niente semplice».
Eri un ragazzino: quali sono state le difficoltà iniziali?
«Enormi. Vai via a 12 anni, lontano da casa, senza famiglia, amici, riferimenti. Le prime settimane non furono così difficili – era agosto, ci si allenava e basta. Poi iniziò la scuola, arrivò l’inverno, tornavo in convitto da solo. Piangevo tutti i giorni. Sentivo mamma al telefono: fu dura anche per lei. Col tempo ho ringraziato i miei genitori, e li ringrazio ancora: oggi che sono padre capisco quanto sia stato difficile per loro».
Ricordi l’esordio in prima squadra?
«Atalanta–Roma. Eravamo sullo 0–3. Ero a bordocampo, sulla linea di metà campo, pronto a entrare. Punizione dal limite: metto piede in campo, calciano e segnano: 0–4. Non un risultato memorabile, ma un’emozione bellissima giocare per la prima volta in Serie A».
Un ricordo su tutti degli anni all’Atalanta?
«Tantissimi: l’esordio in A; il primo gol, sempre in A, contro la Reggina; la convocazione in Nazionale. Ricordi che allargo alla mia famiglia: grazie all’Atalanta, come famiglia abbiamo fatto un salto. Siamo innamorati dell’Abruzzo e del nostro paese d’origine, ma andare in una realtà così importante ha significato molto anche per i miei genitori e i miei fratelli, umanamente e lavorativamente».
Chi è la persona che nel tuo percorso all’Atalanta ha fatto la differenza?
«Mino Favini. Per me – come per tanti cresciuti a Zingonia – è stato decisivo. Il secondo anno nel vivaio mi mise in panchina perché, secondo lui, non ero pronto. Quel suo modo di fare mi fece capire che, se volevo arrivare, dovevo cambiare qualcosa. Mi ha messo volutamente in difficoltà, ma è la persona che più ha contato nella mia vita professionale».
Com’era il rapporto con la città e i tifosi?
«Meraviglioso. Al Nord le persone sono un po’ più fredde, ma io mi rivedo in questa riservatezza. A Bergamo mi sono trovato benissimo, con tifosi caldi. Ci sono stati momenti di difficoltà – qualche retrocessione – ma anche tante promozioni, grandi partite, campionati importanti. Città e tifosi sono stati fondamentali per me».
Poi i tuoi genitori hanno scelto di rimanere a vivere in provincia di Bergamo.
«Sono venuti per me, ma poi li ho lasciati a Bergamo senza di me: vivono ancora lì».
Torniamo al presente. L’Atalanta di questa stagione: che impressione ti ha fatto e dove può arrivare?
«Negli ultimi anni ha fatto un percorso importante. Ai miei tempi c’erano piccole ambizioni europee, ma non ci riuscimmo; poi, con Percassi, sono arrivate Champions ed Europa League. Adesso, con il nuovo allenatore, c’è un cambiamento, ma le basi sono forti: società importante, tifosi e ambiente che spingono. L’Atalanta può ancora arrivare a traguardi importanti».
In estate hai detto che, con i giusti investimenti, l’Atalanta poteva ancora disputare un campionato di vertice. Li ha fatti?
«Non è facile cambiare dopo un percorso così importante – e difficilmente ripetibile – come quello con Gasperini. Però la strada è giusta. Juric è un allenatore importante e si sta confermando. Il budget dell’Atalanta è di un certo tipo, non ai livelli altissimi di Juve, Milan e Inter, ma la squadra può ripetersi e andare ancora in Europa: dalla Champions o dall’Europa League. Può arrivare tra le prime».
Da anni hai intrapreso la carriera da allenatore: oggi sei al Campobasso. C’è un insegnamento degli anni alla Dea che ti porti dietro? Qual è l’obiettivo stagionale?
«Mi porto dietro tutto. A Bergamo ho avuto allenatori bravi: la mia formazione è stata ottima. Hanno visto in me dei valori e li hanno sviluppati al massimo. È grazie all’Atalanta se sono quello che sono. Obiettivi? Personale: fare bene. Quanto bene lo dirà il campo. Ho entusiasmo ed energia: spero di combinare i sogni con la realtà».
C’è qualche giovane promessa nerazzurra – tra Primavera e Under 23 – che porteresti con te?
«Bergamo sforna sempre profili interessanti, ma mancherei di rispetto se facessi nomi. Sono in buone mani: tra qualche anno li vedremo in B e auguro a qualcuno anche la A».
Atalanta–Lazio: che partita sarà?
«Una gara interessante tra due squadre che stanno cercando la loro dimensione. Sarri è tornato e vuole fare bene; lo stesso vale per Juric. È una partita particolare e io, da doppio ex, mi auguro un pareggio che non scontenti nessuno».
Oggi Luciano Zauri osserva Atalanta e Lazio da un’altra prospettiva, ma con lo stesso sguardo pulito di quando era ragazzo. In quelle due maglie c’è la sua storia: la fatica di chi parte da lontano, la gratitudine verso chi gli ha dato fiducia, la consapevolezza di aver costruito tutto con lavoro e cuore. Atalanta–Lazio per lui non è solo una partita: è la sintesi di un percorso, il riflesso di due capitoli che, insieme, raccontano la sua vita nel calcio.
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